La cessione di Eni-Enel e i paletti antiscalata
Andrea Ducci – Corriere della Sera
Vendere, incassare circa 5 miliardi di euro e mantenere la presa pubblica sul controllo delle società di Smto. La cessione di un consistente pacchetto di azioni di Eni (il 4,34%) ed Enel (il 5%) da parte del ministero dell’Economia, al di là dell’immagine di un Paese che fa cassa vendendo un pezzo dei gioielli della corona, non espone le due aziende a rischi di scalate. La privatizzazione a cui sta lavorando il ministero di via XX Settembre prefigura, del resto, la discesa da parte dell’azionista pubblico al di sotto della fatidica soglia del 30% del capitale, ossia la quota azionaria che preclude la possibilità di rastrellamenti ostili e forestieri per conquistarne il controllo. A meno che non sia lanciata una cosiddetta offerta pubblica di acquisto (Opa). Regola che tuttavia non vale per Eni ed Enel, poiché gli statuti delle due società contengono una clausola di garanzia a tutela dell’azionista pubblico.
Una misura, insomma, che ne blinda il controllo. A prevederla è una legge del 1994, predisposta alla vigilia delle grandi privatizzazioni di Stato. Il dispositivo è semplice e stabilisce che i titolari di quote azionarie esercitano il loro diritto di voto fino al 3% del capitale posseduto. In pratica ogni azione eccedente la soglia del 3% viene «sterilizzata» e non consente di esercitare votazioni in assemblea. Il limite può essere aggirato modificando lo statuto con una delibera assembleare che rappresenti almeno il 75% del capitale Un obiettivo che però resta un miraggio se il ministero dell’Economia mantiene una quota superiore al 25%.
Un’operazione di privatizzazione in corso prevede che i pacchetti Eni ed Enel in mano allo Stato siano venduti entro l’autunno. E una volta avvenuta la cessione ai fondi istituzionali, vale ricordare che al ministero resterà una quota del 26,24% di Enel e del 25,76% di Eni (detenuto attraverso Cassa Depositi e Prestiti). In queste ore, agli osservatori più critici e alle speculazioni politiche che lamentano l’ennesimo arretramento in asset strategici per il sistema Paese, è stato fatto osservare che per Eni esiste un’ulteriore clausola di salvaguardia degli interessi nazionali. Si tratta dei golden power inseriti al secondo comma dell’articolo 6 dello statuto. In sintesi, grazie a una legge del 2003 al ministero dell’Economia e al ministero dello Sviluppo economico sono riservati alcuni «poteri speciali», a presidio e tutela di Eni. In tutto sono quattro i golden power e permettono allo Stato di opporsi sia all’assunzione di pacchetti rilevanti sia alla formazione di patti o accordi che raccolgano oltre il 3% del capitale. Il terzo potere riservato all’azionista pubblico è il veto a delibere di scioglimento, trasferimento della sede all’estero, fusione e scissione. L’ultimo grimaldello antiscalata è rappresentato dalla nomina di un amministratore senza diritto di voto all’interno del board.
Gli statuti di Eni ed Enel non hanno finora adottato l’ulteriore facoltà del voto plurimo. Il meccanismo cioè che prevede di maggiorare il diritto di voto, fino a un massimo di due voti, per ciascuna azione detenuta. L’introduzione del voto plurimo, sovvertendo il principio anglosassone del one share one vote, consente a un azionista di valere in sede di votazione più del capitale effettivamente detenuto. In soldoni con il voto plurimo lo Stato potrebbe controllare poco più del 25% dei voti possedendo una quota di capitale del 12,5%. Tradotto significa che potrebbe riservarsi di vendere un’altra bella fetta di Eni, Enel, Finmeccanica, ma pure delle quotande Poste, Enav e Sace senza mollare la presa.