Lucciole in Europa

Enrico Cisnetto – Il Foglio

Occhio a non prendere lucciole per lanterne, in Europa. Il rischio è credere che siano illuminate strade che in realtà sono buie 0 addirittura non esistono, e farsi male. Per esempio, in molti hanno creduto di vedere, o comunque di ritenere possibile, un’aggregazione mediterranea contro la Germania in nome dello sviluppo e della tutela del Welfare. Ora, a parte che non c’e nessuno nell’Eurozona che più e meglio dei tedeschi pratica la crescita e tutela lo stato sociale, comunque ecco il risultato: Hollande licenzia i ministri più ostili alla politica tedesca, a costo di spaccare il suo partito, genuflettendosi ancora una volta al cospetto del mai rinnegato, nei fatti, asse franco-alemanno; la Merkel e Rajoy si giurano amore imperituro e mostrano i denti ai, veri o presunti, nemici dell’austerità. Alla faccia di chi immaginava che nell’eurosistema in salsa berlinese si potesse fare a meno della Germania o anche solo mettersi di traverso. 

Stesso discorso, seppure rovesciato, vale per chi insegue la chimera dell’economia Ue a trazione tedesca. Così non è per due semplici motivi. Il primo è di carattere strutturale: il successo dell’economia teutonica è dovuto alla sua capacità di competere sui mercati mondiali con prodotti hi-tech e servizi d’alta gamma, ed è quindi basato sulle esportazioni verso le aree extra Uc del mondo – un export, non dovremmo mai dimenticarcene, in cui c’e un pezzo importante di made in Italy – e non sui consumi interni, che dunque non trascinano le esportazioni degli altri paesi europei. Scelta intelligente e per certi versi obbligatoria – sia perché questo e il destino dell’Europa nella divisione internazionale del lavoro imposta dalla globalizzazione, sia perché per troppo tempo un po’ tutti noi del Vecchio Continente, chi più (paesi del Sud) chi meno (paesi del Nord), abbiamo vissuto al di sopra delle nostre reali possibilità – che comunque non cambia anche se ora l’Spd spinge la Merkel ad aumentare i salari minimi. Il secondo motivo è di natura congiunturale: per le riforme a suo tempo fatte e per come si è configurata l’integrazione (solo monetaria) europea, la Germania lucra un doppio vantaggio, la bilancia commerciale patologicamente in avanzo e un basso costo di accesso ai capitali, cui non intende – comprensibilmente – rinunciare. E questo non la rende certo una trainante locomotiva per le altre economie continentali.

Lucciole per lanterne stiamo rischiando di prendere anche sulle conseguenze delle recenti dichiarazioni di Mario Draghi. Non ci voleva certo il ruvido ministro tedesco delle Finanze, Wolfgang Schaeuble, per capire che sulla necessità di un allentamento delle politiche di rigore c’è stato un clamoroso misunderstanding. Anzi, Draghi ha detto che dopo averlo fatto negli ultimi due anni, la Bce non e più disposta a “comprare tempo” a favore dei governi europei senza che questi facciano i compiti a casa delle riforme strutturali. Un messaggio inequivocabile – la politica monetaria la sua parte l’ha fatta e continuerà a farla, ma non pensiate che abbia anche il compito di scongiurare la ricaduta nella recessione, quello spetta alle politiche economiche nazionali – su cui quasi certamente il presidente della Bce aveva acquisito preventivamente il consenso dei tedeschi. Allora, perché far finta che abbia detto altro? Perché non guardare in faccia la realtà, la quale ci dice che la Bee non può andare oltre, anche volendo. La diga eretta da Francoforte è stata preziosa, tagliando le gambe agli spread e alla speculazione che scommetteva contro l’euro, ma non ha risolto, né poteva, alcun problema di fondo che compone il puzzle delle eurocontraddizioni. Ha solo aperto un ombrello protettivo sulla testa dei governi, lasciando a loro il compito di approfittarne, pena essere esautorati dalla cosiddetta Troika. Così non è stato, per lo più. Non ne ha approfittato l’eurosistema nel suo insieme – per colpa dei diversi ma convergenti retaggi tedeschi e francesi – e non ne ha approfittato l’Italia, pur avendo nel frattempo sperimentato tre governi (Monti, Letta, Renzi), o forse proprio per questo. 

Insomma, nessun aiutino in vista. Perché non sta nelle cose, e perché comunque non ce lo meriteremmo. Si dice: ma avremo – ormai è pressoché certo – la guida della politica estera europea. Peccato che sia materia di piena sovranità nazionale e che dunque quel ruolo sia solo formale. Inoltre, per quel poco che conta, l’incarico arriva proprio mentre lo scenario geopolitico, con gli annessi e connessi energetici, si sta facendo maledettamente complicato. Anche qui, vietato scambiare lucciole per le lanterne: a decidere se fare o meno accordi con Putin, e di che tenore, e a parlarne con gli americani, sara la Merkel – che deve decidere se mantenere o far saltare la sempreverde ostpolitik tedesca (niente nemici a oriente) – non la Mogherini (come ieri non era la Ashton). Così, giusto per sapere con che carte si gioca.