La nuova “i” di Piigs

Enrico Cisnetto – Il Foglio

Se non sono bastati sette anni di crisi per capirlo, almeno adesso c’è la controprova: le riforme economiche funzionano. L’Italia è l’unico paese tra i “Piigs” a non aver adattato il proprio sistema produttivo al nuovo scenario economico internazionale ed è anche, guarda caso, l’unico in recessione. Non è a sproposito, quindi, che Mario Draghi ha evocato “cessioni di sovranità” pur di superare “la generale incertezza che circonda le riforme economiche” nei paesi recalcitranti. Non ha nominato il nostro, ma è ovvio che stesse pensando all’Italia. Perché siamo tornati a essere il grande malato d’Europa. Anzi, l’unico. Ed è inutile incolpare i vincoli europei, la congiuntura internazionale o, peggio, prendersela con la Bce per (presunta) lesa maestà. Non è stata una gran mossa essere scesi in polemica con Draghi – cosa che neppure Berlusconi ebbe l’incoscienza di fare, mentre Tremonti ci provò senza dirlo – proprio mentre Moody’s prevede che noi si finisca l’anno con il meno davanti (vuol dire stare in recessione altri sei mesi) e quando altrove, a riforme fatte, le cose cominciano invece ad andare bene.

Dopo aver rischiato il default nel 2011, per esempio, la Spagna è tornata a crescere – aumenti congiunturali per i primi due trimestri dello 0,4 e dello 0,5 per cento – tanto che il Fondo monetario ha aggiornato al rialzo le stime sul pil, che dovrebbe segnare un solido +1,2 per cento a fine anno, un boom se paragonato al meno zero virgola qualcosa italico. Ma la Spagna vince anche nelle vendite al dettaglio (+0,5 contro -0,7 per cento), nelle esportazioni (+8,1 contro +3,3 per cento) e in quell’indicatore che è lo spread (25 punti in meno quello spagnolo, sia quando veleggia intorno ai 150 punti sia quando si avvicina ai 200). Questa ripartenza è stata possibile perché Madrid, a differenza nostra, ha accompagnato l’austerità con il taglio delle spese della Pubblica amministrazione sia dal lato degli stipendi (abolizione della tredicesima), che su quello dell’organizzazione, e ha riformato il sistema di welfare intervenendo anche sulle pensioni (unica misura che abbiamo introdotto pure noi, con Monti). Ma, soprattutto, ha reso flessibile il mercato del lavoro, puntando sulla contrattazione decentrata e consentendo il licenziamento senza indennizzo nel primo anno di contratto.

Nonostante le manifestazioni di protesta e le opposizioni corporative e settoriali, il governo Rajoy è andato avanti nell’introduzione delle riforme e ora, con l’economia che è ripartita, ha messo in cantiere una riforma fiscale per ridurre le tasse. E sta pure estinguendo il prestito di 40 miliardi che la Ue ha erogato nel 2012 per salvare le banche iberiche. Anche Portogallo e Irlanda sono usciti dalle procedure di salvataggio della Troika. Lisbona, dopo aver semplificato gli oneri burocratici per le imprese, tagliato i tempi della giustizia civile, aperto alla concorrenza i settori protetti, favorite la contrattazione decentrata e la flessibilità in uscita, crescerà dell’1,2 per cento nel 2014 e dell’1,5 per cento nel 2015, con la bilancia dei pagamenti in surplus e la disoccupazione in calo da cinque trimestri consecutivi. Dublino ha guadagnato l’1,7 per cento dal 2011, lo stesso numero che dovrebbe fare anche nel solo 2014, per poi raggiungere il 2,5 per cento nel 2015. Perfino la Grecia, tecnicamente già fallita e con oltre 26 punti di pil persi dal 2008, quest’anno dovrebbe segnare +0,6 per cento, con Moody‘s che ha appena alzato di due gradini il giudizio sul debito sovrano di Atene.

Dopo amare medicine, insomma, gli altri paesi stanno tornando in forma, applicando, pur tardivamente, la strategia tedesca, attuata prima della crisi, per adattare il sistema produttivo ai nuovi parametri internazionali. In Italia, invece, del declino non si vede la fine. Eppure la sera delle elezioni europee si guardava al governo di Roma come al prescelto per cambiare il destino del continente, perché l’unico esecutivo con la forza politica ed elettorale per modificare la strategia economica europea. Che effettivamente è da cambiare, ma avendo la credibilità acquisita avendo fatto i compiti a casa. Nemmeno due mesi e siamo tornati la pecora nera, proprio a causa delle riforme non fatte (Draghi dixit). Quello “comprato” dalla Bce è stato tempo inutile, come inutili sono state e saranno le misure convenzionali della nostra assai poco coraggiosa politica economica (ammesso e non concesso che si possa definire tale). Gli altri, i “Pigs”, hanno adattato il loro sistema produttivo, burocratico e fiscale alla realtà globale e alla moneta comune – anche perché vincolati dagli aiuti finanziari internazionali – mentre l’Italia, l’altra “i” dei “Piigs”, essendosi sempre rifiutata di prendere atto di appartenere al “club dei maiali” o quindi avendo sdegnosamente allontanato qualunque soccorso, adesso rischia di doverlo subire forzosamente, quell’aiuto “esterno”. Per fare le riforme che la politica nazionale non è stata e non sembra ancora in grado di fare. Piaccia o non piaccia all’inquilino di Palazzo Chigi.