Strumenti taglia-debito: tutte le insidie da evitare

Isabella Bufacchi – Il Sole 24 Ore

Non si può proprio dire che la coperta sia corta, quando si lavora su un’operazione taglia-debito degna di questo nome. Un intervento una tantum risolutivo di riduzione dello stock del debito pubblico italiano, su quei 2.168 miliardi che valgono all’incirca il 135% del Pil, deve rimuovere qualche centinaio di miliardi di euro affinché ne valga davvero la pena. La coperta appare enorme, e dài e dài a tagliare in lungo e in largo, a colpi di sforbiciate si toglie questo e quel pezzo. Non si guarda tanto per il sottile, l’obiettivo è nobile: liberare risorse per crescita e occupazione. Ma attenzione a non sottovalutare le insidie, il pericolo di fare a brandelli la credibilità, lo standing creditizio del paese, i bilanci delle banche e la fiducia degli investitori.

La gamma delle operazioni una tantum per la riduzione del debito pubblico è vasta come ampio è il rischio di perdere la faccia sui mercati. La forma più classica e attendibile è la privatizzazione, la vendita delle partecipazioni azionarie in mano allo Stato: l’incasso rimpolpa il fondo di ammortamento dei titoli di Stato, usato dal Tesoro per rimborsare i bond in scadenza. L’impatto sul debito è immediato, lo stock cala all’istante, la credibilità resta elevata. Ma tra il 1992 e il 2000 lo Stato ha dismesso il grosso delle partecipazioni (oltre 180mila miliardi di vecchie lire): nel febbraio 2012 Mediobanca ipotizzava 50 miliardi di euro aggiuntivi ma la cifra si è sgonfiata. Non rimangono tanti gioielli di famiglia. L’attuale programma di privatizzazioni del Tesoro vale lo 0,7% del Pil l’anno (2014-2017 con gli immobili): annovera Poste, Enav, Fincantieri, Cdp reti, Rai way, STMicroelectronics, Ferrovie, altre quote di Eni ed Enel, il piano sta andando avanti, si fa, si farà. Ma le grandi aspettative sono riposte su un altro terreno, più scivoloso, quello delle municipalizzate: piuttosto che agli incassi si mira ai risparmi perché in molti casi si tratta di liquidare, non dismettere. La privatizzazione qui si trasforma in liberalizzazione, lo Stato arretra, promette maggiore efficienza e concorrenza. Ma chi ci ha già provato mette in guardia gli ottimisti dalle insidie del diritto societario, dall’ingente spesa legale per colpa di liti e cause, dai tempi incredibilmente lunghi per chiudere con il passato.

L’asticella delle aspettative si alza di più con la dismissione degli immobili pubblici. Ripetutamente agli italiani e agli stranieri viene detto che il patrimonio immobiliare dello Stato vendibile, in gran parte oramai in mano agli enti locali e alla Difesa, vale fino a 400 miliardi ma la cifra rischia di essere gonfiata. Un censimento ufficiale ed esaustivo non è stato ultimato: molti enti locali non sanno quali e quanti immobili hanno e con quale valore di mercato. Vendere tutto e subito comunque non si può: non c’è una domanda adeguata (neppure straniera) che possa assorbire tanta offerta senza provocare il crollo dei prezzi e i tempi restano biblici per il cambio di destinazione d’uso. Servono risorse upfront che non ci sono, come per smaltire l’amianto. Per velocizzare la vendita degli immobili come con una bacchetta magica rispunta sempre la “spv” (la società veicolo fuori dal perimetro della pa, contabilmente fuori dai conti pubblici).

Fare cassa in questo modo è molto complicato, si torna alle cartolarizzazioni, al sale & lease-back (affitto) redditizie per le banche d’affari che offrono consulenza: la spv in teoria compra un portafoglio di immobili (tra i 100 e i 300 miliardi?) da Stato ed enti locali al fine di gestirli per venderli o valorizzarli con la messa a reddito (affitti e concessioni). La spv acquista gli immobili con i soldi incassati dal collocamento sul mercato (a risparmiatori o investitori istituzionali) di quote o bond o pseudo-azioni: attira fondi promettendo rendimenti attraenti (dal 5% in su?) purché il portafoglio di immobili generi vero reddito. Questa sorta di mattone-bond può funzionare su portafogli snelli e se lo Stato e gli enti locali si prestano a pagare un affitto: il debito pubblico migliora ma il deficit rischia di peggiorare perché i rendimenti di questi nuovi strumenti di finanza strutturata, per attrarre domanda, non possono essere inferiori a quelli dei titoli di Stato. Il trasferimento di patrimonio immobiliare pubblico dallo Stato alla spv, inoltre, rafforza la solidità della società-veicolo ma rende meno solidi (meno garanzie, meno appetibili) i titoli di Stato in circolazione.

Resta la tentazione di far scendere in campo nel ruolo di acquirenti i grandi portafogli italiani, come le compagnie di assicurazione, i fondi pensione e la Cdp. Ma questi investitori sono il mercato, sono esigenti sul rischio/rendimento, sulla tempistica, sulla trasparenza, sull’affidabilità e hanno vincoli di bilancio. La Cassa, la più gettonata nei progetti taglia-debito, ha 147 miliardi di liquidità (fine 2013) parcheggiati sul conto di Tesoreria dello Stato. Questa liquidità però serve in gran parte, va a fronte di oltre 240 miliardi di buoni postali, strumenti a vista in quanto il sottoscrittore può rivenderli alla Cdp in qualsiasi momento con rimborso del capitale alla pari. La Cassa deve rispettare ratios patrimoniali e ha limiti nell’investimento in azioni.

Oltre agli immobili, nel taglia-debito si tirano spesso in ballo le riserve auree della Banca d’Italia: ma non si possono toccare perché «costituiscono parte integrante delle riserve dell’Eurosistema insieme a quelle conferite alla Bce, sono una garanzia di solvibilità». Se invece l’Italia dovesse chiedere aiuto all’Esm, in forma di linea precauzionale, potrebbe contare su una potenza di fuoco congiunta dei due fondi-salva Stato da 450 miliardi e ambire alle OMTs e il QE, gli acquisti della Bce. Ma nessuno al mondo vuole che l’Italia chieda aiuto e per evitarlo il taglia-debito azzarda la ristrutturazione “soft”: c’è chi propone di offrire ai sottoscrittori, tramite il farraginoso processo delle assemblee degli obbligazionisti, la facoltà di scambiare i BTp con altri bond con cedole diverse e soprattutto scadenze più lunghe. Questo swap può interessare i privati (che detengono meno del 10% dei titoli di Stato) e non può riguardare le banche italiane che detengono oltre 400 miliardi di titoli di Stato, acquistati con i prestiti LTRO della Bce che vanno restituiti nel 2015 (o TLTRO fino al 2018). Le banche non possono scambiare BTp con nuovi titoli a 30 anni. E poi, se vacillano i titoli di Stato, vacillerebbe l’intero sistema bancario.

L’Eurozona dovrebbe risolvere per tutti il “debt overhang” creando un fondo dove far confluire quella quota di debito pubblico dei 18 Stati membri che va oltre il 60% del debito/Pil: la “ristrutturazione” sarebbe silente, sostituire i vecchi titoli di Stato con nuovo debito europeo a scadenza extra-lunga, tassi bassi. Sarebbe “mascherata”, senza lo spettro di default e PSI (private sector involvment): per arrivare a tanto, l’Italia dovrebbe garantire il pareggio di bilancio, il trasferimento di asset pubblici e un flusso di entrate tributarie. Ne varrebbe la pena.