La legge di stabilità? Debole
Aldo Cazzullo – Sette
Pier Carlo Padoan ha ragione quando dice che questa crisi è forse la peggiore dell’era capitalista. Ma i numeri della sua legge di stabilità non sono da emergenza, sono da ordinaria amministrazione. Non è colpa sua, ovviamente, né di Renzi, che semmai ha il torto di averla fatta troppo facile. La crisi italiana non è solo una crisi di fiducia; è soprattutto una crisi di investimenti. Certo, c’è un rapporto tra le due cose: si investe poco perché non si ha fiducia nel futuro. Ma anche perché mancano infrastrutture, tecnologie, laureati, e forse anche voglia di competere, di sacriicarsi, di rischiare. In una situazione così bloccata. solo una massiccia iniezione di liquidità potrebbe far diminuire il valore dell’euro, fin troppo forte per il nostro sistema produttivo, e far aumentare l’inflazione, troppo bassa per il nostro debito pubblico. E solo grandi investimenti finanziati dall’Europa, dallo Stato, dagli enti locali possono creare lavoro e a medio termine anche migliorare i parametri della nostra economia: perché puoi tassare e tagliare finché vuoi, ma se il Pil non riparte qualsiasi parametro calcolato sul Pil, a partire dal fatidico 3 per cento, tenderà sempre a peggiorare.
La legge di stabilità del governo Renzi-Padoan non assomiglia neppure lontanamente a una manovra del genere. Nel ’92 Amato tra tagli e tasse muoveva 90mila miliardi, per salvare il bilancio pubblico e la lira. Oggi che abbiamo al contrario tassi relativamente bassi e una moneta fin troppo forte si muovono 20 miliardi di euro, quasi tutti per mantenere provvedimenti già decisi, come gli 80 euro. Che non sono affatto demagogia, rappresentano il primo serio tentativo di abbassare le tasse sul lavoro; ma ovviamente non bastano. Che ci facciamo con un miliardo qui e un miliardo là, un contributo alla scuola e uno ai Comuni, più un miliardo e mezzo per i nuovi ammortizzatori ai disoccupati, vale a dire un decimo di quel che servirebbe?
Anche Renzi inevitabilmente si ritrova nella gabbia in cui si erano invano dibattuti i suoi predecessori, da Prodi a Letta passando per Berlusconi e Monti. Prodi mise sette miliardi per tagliare il cuneo fiscale, ma aumentò l’Irpef ai ceti medi, per cumi molti lavoratori dipendenti non ebbero alcun beneficio, anzi, dovettero pagare più tasse. Tremonti concluse un’attenta gestione dell’esistente, presagendo la crisi in arrivo, da lui prevista fin dal 2007, ma a parte la detassazione degli utili reinvestiti non si è vista affatto l’attesa svolta liberale, e l’Italia con la destra al governo ha continuato a perdere competitività. Con Monti abbiamo finanziato il salvataggio delle banche altrui senza avere in cambio la flessibilità che ci serviva: il risultato è stata la deflazione.
Renzi vuol convincere l’Europa a cambiare politica in modo da avere margini di manovra ulteriori, parla spesso dei 200 miliardi di investimenti promessi da Juncker, attende le mosse di Draghi cui ha portato la riforma dell’artitolo 18; ma sono speranze per l’avvenire, non misure per la ripresa qui e ora. Il premier ricorda spesso che l’Italia è il Paese con la più alta ricchezza privata pro capite (in altre statistiche siamo secondi dopo un’altra grande malata, la Francia). Meglio non farlo sapere alla Merkel, che ci chiederebbe ulteriori sacrifici: i tedeschi producono più ricchezza di noi, ma ne hanno accumulata meno. Debito pubblico, e crediti privati: il nostro convento è povero, ma i frati sono ricchi. La ricchezza non viene più prodotta, ma estratta: come nella Venezia del Settecento, bellissima, con il miglior tenore di vita d’Europa, ma senza vitalità e prospettive, in cui una classe di oligarchi viveva di rendita e grazie al lavoro dei sottoposti. Davvero vogliamo un Paese così? Davvero pensiamo di uscirne investendo un miliardo qui e un miliardo là?