Il part-time era un’opportunità, con la crisi diventa una condanna
Walter Passerini – La Stampa
In pochi anni è cresciuto del 40%, passando da tre milioni a oltre quattro milioni di persone, ma il suo cammino è lastricato di trappole. Il part time, vale a dire un orario di lavoro ridotto rispetto all’orario pieno, è passato quasi indenne dalle polemiche contro i finti contratti autonomi (lavoro a progetto, false partite Iva), ma viene spesso citato dalle statistiche nella sua versione di part time involontario, a definire un lavoro accettato in mancanza di alternative full time. Secondo l’Istat la riduzione di orario involontaria ha un’incidenza del 63,6% sul totale dei lavoratori a tempo parziale. La formula è tradizionalmente più femminile che maschile, anche se il mix sta cambiando. Che sia verticale, orizzontale, dipendente o indipendente, il part time oltre all’involontarietà nasconde un altro terribile segreto, figlio della crisi.
Lo hanno scoperto due ricercatori Istat, Carlo De Gregorio e Annelisa Giordano, che ne scrivono in un working paper passato del tutto inosservato: «Nero a metà, contratti part-time e posizioni full-time fra i dipendenti delle imprese italiane». Dietro il linguaggio delle cifre, i ricercatori rivelano e documentano una triste pratica, quella dei falsi part time. La formula è cresciuta molto in questi anni di crisi, in particolare nel Mezzogiorno, e ha coinvolto un numero crescente di uomini. Ma mentre in Germania, per esempio, la crescita del part time si accompagna alla crescita di tutta l’occupazione, in Italia si manifestano fenomeni inversi: il part time sembra una risposta autoctona, “all’italiana”, alla crisi. Come?
I ricercatori mettono sotto la lente un campione di 113mila lavoratori dipendenti, corrispondenti all’universo di 11,8 milioni. Ne emergono un paio di eclatanti incoerenze, che fotografano due situazioni speculari e opposte: i falsi part time e i falsi full time. Incrociando i dati delle ore lavorate con quelli economici e retributivi, i ricercatori hanno scoperto che “i falsi part-time mostrano una quota pro capite di ore lavorate di poco inferiore, ma una retribuzione netta oraria di oltre il 20% più bassa, un imponibile contributivo per ora lavorata pari a circa la metà e un rapporto fra imponibile e retribuzione netta inferiore di un terzo. Questi squilibri si accentuano nel caso della componente maschile e sembrano evidenziare sia la presenza di ore lavorate e non retribuite sia la presenza di ore retribuite fuori busta, cui corrisponde evidentemente un imponibile contributivo non dichiarato”. La quota maschile di falsi part time è arrivata al 40%.
Queste incongruenze rivelano che dietro il falso part time c’è un’evasione contributiva e retributiva. Il lavoro effettivo è a tempo pieno, ma le aziende versano contributi e retribuzioni ridotte. Viene retribuito regolarmente solo il 65-70% delle ore lavorate, il resto è al nero o non pagato, come se fosse una tassa per avere un lavoro. È la prova dell’incrocio di ricatti e connivenze, di risposte illegali ai costi delle imprese e al bisogno di lavoro dei lavoratori. Ai falsi part time si accompagnano i falsi full time. Perché dichiarare un orario pieno e in realtà lavorare di meno? Per le aziende ci sono vantaggi fiscali e la costituzione di una banca di ore al nero. Per un lavoratore facilitazioni nelle graduatorie, pur avendo lavorato meno o senza essere pagato. Tragica consolazione dover pagarsi in parte un lavoro o lavorare gratis, pur di avere un lavoro.