Centrali d’acquisto, i tagli promessi da Renzi su un binario morto
Stefano Caviglia – Panorama
Se il buongiorno si vede dal mattino, la spending review di Matteo Renzi viaggia sotto i peggiori auspici. È dal 24 aprile 2014, con la presentazione del «decreto competitività e giustizia sociale», che il governo promette di ridurre il numero abnorme di centrali di acquisto dello Stato, delle Regioni e (soprattutto) dei Comuni italiani. Ma è proprio quel primo passo che non riesce a compiere. Il testo del provvedimento, lo stesso del bonus degli 80 euro, fissava l’inizio delle operazioni al primo luglio: delle circa 32 mila stazioni appaltanti della Pubblica amministrazione (responsabili di circa 130 miliardi di acquisti di beni e servizi), era la promessa, ne sarebbero soprawissute al massimo 35, compresa la Consip, la centrale di acquisti nazionale posseduta dal ministero dell’Econornia. I Comuni non capoluogo di provincia sarebbero stati obbligati ad acquistare attraverso una di queste (oppure tramite aggregazioni ad hoc con altre amministrazioni) qualunque bene, servizio o lavoro pubblico. Sono passati più di sette mesi e non solo lo spettacolare taglio non s’è visto, ma la sua stessa eventualità è messa pesantemente in discussione. L’idea di ridurre le centrali di acquisto provoca infatti reazioni di sdegno nella potentissima associazione dei Comuni italiani. «Quella norma rischia di causare il blocco degli appalti in tutto il Paese», tuonò l’Anci al momento dell’approvazione del decreto, ottenendo uno slittamento dell’applicazione al primo gennaio 2015.
Ora che il tempo è scaduto, l’offensiva si sposta in Parlamento. Alla Camera una pioggia di emendamenti si è abbattuta sul Milleproroghe, il decreto che ogni anno mantiene in vita per il tempo necessario i provvedimenti in scadenza. Chiedono quasi tutti di far slittare di sei mesi o di un anno la norma sulla riduzione delle stazioni appaltanti, forse nella speranza che si perda nei corridoi del Parlamento o che sia travolta da una fine anticipata della legislatura. La palla è ora nel campo del governo, che entro la metà di febbraio dovrà decidere se rinviare per la seconda volta l’entrata in vigore della legge oppure mantenere la promessa fatta agli italiani. L’esecutivo, a quanto risulta a Panorama, è in grande imbarazzo: da un lato ci sono le pressioni sempre più forti dei Comuni, dall’altro il fatto che un nuovo rinvio comporterebbe un prezzo da pagare in termini di credibilità, anche perché la razionalizzazione delle stazioni appaltanti equivale a una discreta fetta dei tagli tante volte annunciati. Alla voce «Iniziative su beni e servizi», le famose slides dell’ex commissario alla spending review Carlo Cottarelli avevano stimato una riduzione di spesa di 800 milioni di euro nel 2014 e di 2,3 miliardi nel 2015. In tutto fa più di 3 miliardi, che nella migliore delle ipolesi già non sono più interamente disponibili (siamo a febbraio) e nella peggiore stanno per svanire del tutto insieme a tanti altri risparmi e alle diininuzioni di tasse cui dovrebbero essere destinati.
Il discorso delle centrali di acquisto, infatti, è solo la punta dell’iceberg. Dei tagli promessi dal governo, almeno di quelli più importanti, non se n’e fatto finora neanche uno. Difficilmente arriveranno risorse dalla riduzione dei trasferimenti alle imprese (un miliardo era previsto da Cottarelli nel 2014 e 1,6 miliardi nel 2015) o dalla cessione delle aziende municipalizzate in perdita (100 milioni nel 2014 e altrettanto nel 2015). Non si vede nulla all’orizzonte neppure per quel che riguarda la riorganizzazione delle forze di polizia (800 milioni nel 2015) ne dalla soppressione di enti o agenzie (100 milioni nel 2014 e 200 nel 2015). Solo il taglio delle retribuzioni di presidente e consiglieri del Cnel produrrà qualche risparmio, ma non certo nella misura attesa, visto che l’iter legislativo della chiusura del Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro e ancora in corso. Poi ci sono voci ormai mitiche come la digitalizzazione della Pubblica amministrazione che, sempre nei piani di Cottarelli, nel 2015 avrebbe dovuto dare più di 1 miliardo. È ancora valida quella previsione ora che l’ex commissario è stato accompagnato alla porta da Renzi? Bisogna essere molto ottimisti per rispondere in modo affermativo.
Alla fine restano solo i vecchi arnesi della riduzione di spesa tradizionale, come i tagli lineari nei ministeri, da cui si prevede di ottenere quasi due miliardi, e quelli dei trasferimenti a Regioni, Province e Comuni, che infatti hanno fatto fuoco e fiamme riguardo alla Legge di stabilità. Tocca a loro il salasso più pesante: 3,5 miliardi in meno alle Regioni e 2,2 ai Comuni. E qui si tocca un altro tasto dolente. Se gli unici risparmi si fanno chiudendo il rubinetto dei trasferimenti agli enti locali, si può parlare di riduzione degli sprechi? Lo stesso sottosegretario alla presidenza del Consiglio Graziano Delrio (ex presidente dell’Anci) ha riconosciuto in un’intervista alla Repubblica che il 2015 sarà un anno durissimo per i Comuni. E se per compensare quel che manca sindaci e presidenti di Regione aumentano le tasse? Queste voci compongono quasi la metà della manovra 2015 con cui il governo ha cercato di non lasciar vedere troppo lo scarto fra la montagna delle promesse e il topolino dei risparmi reali. Sulla carta i tagli di spesa previsti dalla Legge di stabilità ammontano a 16 miliardi, quattro in meno dei 20 annunciati alla fine dell’estate. Ma il vero problema è la loro incertezza. Per ottenere il via libera della Commissione europea ai conti dell’Italia, il governo si è protetto con la clausola di salvaguardia che prevede dal gennaio 2016, in caso di mancato rispetto delle previsioni, l’aumento dell’Iva al 12 per cento per i beni che oggi pagano il dieci e al 24 per quelli soggetti al 22. Ulteriori aumenti sono previsti nel 2017 e nel 2018. Se i conti dello Stato sono al sicuro, le nostre tasche molto meno.
Per capire come stiano davvero le cose, del resto, basta dare un’occhiata ai numeri generali della Legge di stabilità. Lungi dal diminuire, la spesa pubblica nel periodo fra il 2013 e il 2015 è prevista in aumento da 827,2 a 838,8 miliardi, per arrivare addirittura a 860,3 nel 2017. È vero che queste cifre sono condizionate dal fatto che Bruxelles ha imposto di contabilizzare il bonus degli 80 euro come aumento di spesa anziché come riduzione fiscale, ma anche senza questa penalizzazione nel
2015 la spesa diminuirebbe di appena 6 miliardi, per poi ritrovarsi di nuovo in crescita di altri 20 miliardi nel 2017.