Lo Stato taglia gli investimenti ma aiuta i Sindaci a sperperare
Antonio Castro – Libero
In tempi di crisi si taglia, salvo poi trovare un escamotage per rinviare i possibili risparmi. Entro martedì prossimo il testo (riscritto e corretto la notte scorsa) del decreto Milleproroghe deve essere convertito in fiducia (scade il 3 marzo), e tra gli altri provvedimenti contiene anche il rinvio dell’obbligo per i Comuni di dotarsi di una centrale unica per gli acquisti o di rivolgersi alla Consip (la centrale unica di acquisto della pubblica amministrazione).
Storie di ordinarie gelosie tra branche dello Stato? Non proprio, o non solo. L’emendamento approvato la notte scorsa dalle commissioni Bilancio e Affari Costituzionali prevede uno slittamento dal 1 gennaio al 1 settembre di quest’anno dell’obbligo, per i Comuni non capoluogo di provincia, di acquisire lavori, beni e servizi tramite una centrale aggregatrice di acquisto. In sostanza: fino ad agosto i sindaci saranno liberi di acquistare dove e più gli pare forniture o servizi, infischiandosene magari anche dei risparmi. Un bel segnale non c’è che dire, con buona pace degli sbandierati risparmi per il bilancio pubblico.
C’è da dire che i pesanti tagli ai trasferimenti finanziari statali agli enti locali hanno ridotto sensibilmente la facoltà di spesa degli amministratori dei Comuni. Ma questa proroga rischia ora di inficiare gli eventuali risparmi di spesa previsti dalla legge di Stabilità 2015. Posticipando a settembre l’obbligo di acquisto tramite centrale unica, si sollecitano gli amministratori locali a spendere come più gli aggrada e quanto prima possibile. Legittimo, se non fosse che la Consip ha certificato nel giugno 2014 un risparmio medio del 22% rispetto ai prezzi di mercato (dati 2013).
Insomma, far slittare a settembre l’obbligo di certo non aiuterà a risparmiare. L’estate scorsa la società del Tesoro per gli acquisti aggregati ha stimato in almeno 2,3 miliardi l’anno i risparmi ottenibili se tutte le amministrazioni facessero la spesa in Consip. Mentre si chiede ai contribuenti di pagare di più e di tirare la cinghia («c’è la crisi»), il ministro Padoan non riesce proprio ad imporre un po’ di moderazione agli amministratori locali. Magari – se a settembre sarà rimasto qualche spicciolo in cassa – i primi cittadini saranno più oculati con i quattrini pubblici.
Eppure, visto il calo verticale della spesa pubblica per investimenti bisognerebbe essere formichine più che cicale. Rispetto al 2009 infatti – secondo l’analisi condotta dal Centro studi “ImpresaLavoro” – l’Italia ha tagliato del 30% la spesa pubblica per investimenti. Che è scesa dai 54,2 miliardi del 2009 ai 38,3 del 2013, con una riduzione di circa 15,9 miliardi di euro. In termini reali si deve tornare indietro al 2003 «per riscontrare un dato inferiore». Tradotto su basi relative, spiega lo studio di “ImpresaLavoro”, l’Italia spende ora solo il 2,4% del Pil per investimenti pubblici (il calo rispetto al 2009 è di un intero punto), mentre è salita la spesa per interessi (+0,4% sul Pil) e le altre voci di spesa. Insomma, la crisi ci ha imposto di tagliare gli investimenti, ma si continua a dare agli amministratori locali piena libertà (almeno fino a settembre) di spendere i quattrini drenati con le tasse.