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Davide Giacalone – Libero

Anziché ascoltare i consiglieri si ascoltino gli elettori. Se Matteo Renzi sta cercando idee per la Rai, un suggerimento lo avrei: dia retta agli italiani. E’ più facile di quel che si crede. Pare sia intenzionato a liberare la Rai dalla lottizzazione e dalle presenze, oltre tutto sempre più dequalificate, dei partiti politici. Bravissimo. Applaudo. Ma come? Semplice: l’11 giugno del 1995, or sono vent’anni, gli italiani furono chiamati a votare, fra gli altri, tre referendum. Due erano proposti dal Pds, il Pd di allora, e chiedevano di cancellare la legge esistente sia per quel che riguardava le concentrazioni che per la raccolta pubblicitaria. Gli italiani risposero di no, bocciando l’iniziativa. Uno, però, proposto dai radicali, proponeva di cancellare la legge che obbligava a mantenere pubblica la Rai, aprendo la via alla privatizzazione. Gli italiani votarono a favore (57% dei partecipanti e 54,90% dei consensi). Quella è la soluzione. Ci si libererebbe anche del canone, e scusate se è poco.

Non lo è, invece, come si dice il governo voglia fare, trasferire al proprietà a una fondazione, cui spetterebbe anche il compito di nominare i consiglieri d’amministrazione. Qualcuno s’incarichi di ricordare ai più giovani che la proprietà della Rai è già stata trasferita, ma finché resta in mani pubbliche è ovvio che la nomina dei vertici resta politica. Si può cancellare la lottizzazione, ovvero la spartizione, facendo in modo che prenda tutto uno. Ma in questo modo non vengono meno le mani politiche sulla Rai, semplicemente la mano diventa una. Che è peggio, non meglio.

Si dirà: ma la fondazione sarebbe di alto valore culturale e indipendente. In quel caso va messo l’antitrust alle scemenze, perché non ho mai visto nascere nulla con l’intento che sia di livello triviale e con vocazione alla sudditanza. Ma lì finisce. Se non è zuppa è pan bagnato. Allora, come si può procedere? Intanto evitando di discutere come se fossimo nello scorso secolo, analogico. Con il digitale tutte le imprese televisive si sono dotate di numerosi canali (altro che tre!). La soglia d’accesso a quel mercato s’è abbassata al punto che anche chi non era editore televisivo (le radio e i giornali, ad esempio) lo è diventato. Ciò comporta che non c’è alcun pericolo venga meno il pluralismo, a presidiare il quale bastano le leggi regolanti il mercato. Ciò non garantisce certo il venir meno del conformismo, ma neanche il cosiddetto (e inesistente) “servizio pubblico” ne è capace. Anzi: ne è uno dei più fantastici contenitori.

La Rai è ricca di impianti e sistemi produttivi. Si vendano, all’asta e prevenendo le concentrazioni. Ci si fanno bei soldi (da destinare al calo del debito) e si rende migliore il mercato. Segnalo, però, che con la quotazione di RaiWay il governo Renzi ha fatto il contrario, finanziando la lottizzazione. Il patrimonio culturale, che è degli italiani, non consiste nella produzione Rai, ma nel suo magazzino, nella sua storia, che è storia d’Italia. Se ne apra l’utilizzo a chi lo chiede. Naturalmente a pagamento.

Può, un Paese, fare a meno del servizio pubblico, esercitato da una società pubblica? Sì, nel mondo digitale può. Eccome. Perché il video non sia precluso alle minoranze basterà regolare quegli accessi e obbligare le emittenti a rendere disponibili gli spazi. Senza remunerazione specifica, perché si tratterebbe di un obbligo derivante da un titolo pubblico (l’autorizzazione a trasmettere). Senza canone, quindi. E senza l’idea bislacca di metterlo nella bolletta elettrica, o di dimezzarlo per poi raddoppiarne o triplicarne i pagamenti dovuti (tutta roma anticipata e poi ritirata dal governo). Il consiglio d’amministrazione in carica, di cui non si ricorda un solo atto degno di nota, scade ad aprile. Se si volesse intervenire sul meccanismo di rinnovo lo si dovrebbe fare per decreto legge. Obbrobrio. Orrido precedente. Al punto che Palazzo Chigi ha smentito d’averlo in mente. E ci mancava solo quello. Più facile e onesto avviare le procedure di vendita, considerando ininfluente chi amministrerà solo per pochi mesi.

Ha detto Renzi: “Vogliamo fare della televisione di Stato la più innovativa azienda di produzione culturale”. Quella era la Rai di Ettore Bernabei, governante Amintore Fanfani. Non starò a ricordare che era la sinistra a ritenerla uno sfregio alla libertà e alla democrazia, mi limiterò ad osservare che cercare in quel passato l’innovazione significa essersi dimenticati con quale sistema si ovviò al monocolore televisivo, a gran richiesta e con il plauso della sinistra: con la lottizzazione.