L’obiettivo del mio intervento è di stimolare una riflessione sulla situazione del sistema previdenziale italiano ripercorrendo brevemente le tappe principali che hanno portato alla riforma del 2011, conosciuta come riforma Fornero e cercherò di farlo analizzando in modo particolare quanto di buono sia stato fatto, al contrario del pensiero di molti, per mettere il sistema in sicurezza ma quanto ancora si debba fare.
Attualmente siamo in un sistema a ripartizione nel quale se le entrate contributive non sono sufficienti, la spesa pensionistica è garantita con trasferimenti dalla fiscalità generale. Nel 2013 l’Inps ha evidenziato un buco di 25 miliardi di euro nonostante la “gallina dalle uova d’oro” rappresentata dalla Gestione Separata dove il numero dei pensionati è di gran lunga inferiore ai lavoratori attivi e nel 2014 le cose non sono andate meglio per la perdita di quasi un milione di posizioni attive. E’ del tutto evidente allora che la salute del sistema previdenziale deve obbligatoriamente passare attraverso una seria politica di incentivazione all’occupazione per aumentare il numero dei lavoratori e di conseguenza delle entrate contributive..
Le riforme che si sono succedute a partire dal 1992 hanno messo mano a un sistema che per decenni non ha saputo controllare la spesa pensionistica che è cresciuta anno dopo anno sino a raggiungere nel 2014 il 16,3% del PIL. Abbiamo persone che percepiscono la pensione da quando avevano 40 anni di età, abbiamo importi di pensione completamente slegati dai contributi realmente versati, abbiamo avuto fino a pochi anni fa gestioni pensionistiche che garantivano trattamenti di favore a molte categorie di lavoratori dipendenti generando pensionati di serie A e di serie B. Tutto questo è stato pagato a caro prezzo con interventi sempre più restrittivi introdotti dalle principali riforme, Amato, Dini e Maroni mentre il saldo, probabilmente, è stato versato con la recente riforma Fornero definitivamente approvata con la legge 22 dicembre 2011 n. 204. Una riforma approvata a larga maggioranza dalle forze politiche che sostenevano il governo Monti e con il sostegno delle parti sociali, una riforma resa necessaria per dare un’immagine di credibilità e di tenuta del nostro Paese all’interno della U.E.
Suona davvero strano che da più parti (Governo, Parlamento, Sindacati) vengono annunci o si assumono iniziative per attuare una sorta di “contro riforma” in modo particolare per quanto riguarda l’età pensionabile le cui regole sono considerate troppo elevate e rigide, suona strano perché queste iniziative sono portate avanti proprio dagli stessi partiti che qualche anno prima avevano approvato la riforma, tutto questo non sembra proprio una garanzia di serietà. In ogni caso qualche giorno fa un risultato devastante per le casse dello Stato e, di conseguenza per le tasche degli italiani, è stato raggiunto: una sentenza della Consulta che ha sbloccato l’adeguamento al costo della vita per le pensioni di importo superiore a tre volte il trattamento minimo (1.443,00 euro mensili) nel periodo 2012 – 2013, dichiarando incostituzionale il blocco attuato dalla riforma Fornero..
Secondo un’indagine svolta dall’Ordine dei dottori commercialisti di Napoli il risultato di questa sentenza farà sì che un pensionato con 20 mila euro lordi di pensione, si vedrà restituire circa 1.134 euro lordi, con 50 mila euro di pensione il rimborso ammonterà a circa 2.518 euro lordi e infine chi riceve 100 mila euro annui di pensione avrà diritto a una restituzione di circa 4.700 euro lordi. Nulla è invece dovuto al pensionato che percepisce una pensione lorda sino a 19 mila euro annui. L’onere a carico dello Stato è stimato intorno ai cinque miliardi di euro! E’ doveroso anche ricordare che la mancata rivalutazione delle pensioni superiori a 1.450,00 euro mensili ha permesso di evitare il blocco per le più povere e che nel 2007 il governo Prodi attuò il blocco delle rivalutazioni per le pensioni superiori a 3.700,00 euro mensili, senza che la Consulta avesse da obiettare.
Nel 2011, da un punto di vista finanziario, la situazione dell’Italia puntava pericolosamente in direzione della Grecia ed è stato anche grazie alla riforma Fornero che fu possibile evitare il default.
Adesso non è possibile tornare indietro, al di là di tutti gli slogan elettorali non possiamo non fare i conti con una aspettativa di vita media che nel 2014 è stata di 79,40 anni per gli uomini e di 84,82 per le donne e con un debito pubblico tra i più alti in Europa che ha toccato lo scorso anni i 2.167 miliardi, il 132,50% del PIL!
Nel 2007, prima dell’inizio della crisi, l’incidenza della spesa pensionistica sul PIL era di circa il 14%, adesso siamo al 16,3% ma senza quella riforma saremmo ad un livello inaccettabile del 18%, e nel 2060 scenderà al 13,9%.
Qualunque azienda per risanare i conti può agire sul fronte delle entrate e/o delle uscite, la riforma Fornero ha scelto di agire su entrambi, introducendo per tutti il sistema di calcolo contributivo dal 2012 e una novità assoluta per il nostro sistema previdenziale: l’adeguamento dell’età pensionabile e dei coefficienti di trasformazione per il calcolo della pensione alle aspettative della speranza di vita. In futuro il traguardo della pensione sarà sempre più lontano e l’importo della pensione sempre più basso.
Per fare un esempio concreto, nel 2009 a fronte di un montante contributivo pari a 200.000,00 euro maturava una pensione annua lorda di 12.272,00 euro, oggi con lo stesso montante la pensione sarebbe pari a 10.870,00 euro annui, circa il 12% in meno. A quanto ammonterà l’assegno tra 20 anni?
Dobbiamo essere tutti consapevoli che in futuro la pensione dei nostri figli non potrà più essere quella dei nostri genitori.
Una proposta interessante potrebbe sicuramente essere quella di agire sull’età pensionabile che già oggi è per molti giovani fissata in 70 anni e 3 mesi, introducendo una flessibilità in uscita fissando un’età minima e lasciando al lavoratore la possibilità di decidere quando andare in pensione. Il maggior numero di anni pensionabili sarebbe compensato con una riduzione proporzionale del relativo coefficiente di trasformazione senza dover cercare le coperture finanziarie. Una sorta di ritorno alla riforma Dini che appunto questo meccanismo già prevedeva prima che la riforma Maroni lo abolisse.
In ultimo, lo Stato dovrebbe garantire una corretta informazione previdenziale al cittadino, garantendo il decollo definitivo della previdenza complementare, perché essere informati significa avere consapevolezza e la consapevolezza porta alla ricerca di una soluzione.
E desidero chiudere questo intervento facendo qualche riflessione anche sulla previdenza complementare diventata indispensabile per poter garantire un adeguato tenore di vita in età pensionabile, soprattutto dopo l’introduzione del sistema di calcolo contributivo.
In Europa la media di chi ha una pensione complementare è di circail 91%, in Italia è di circa il 28% (poco più di 6,5 milioni), un differenziale troppo elevato sul quale è necessario riflettere per capire quali errori sono stati fatti.
Un dato su tutti è l’età media degli aderenti: i lavoratori con meno di 35 anni di età rappresentano solo il 18%, il 25% ha un’età compresa tra 36 e 44 anni e oltre il 30% sono quelli tra i 54 e i 64 anni. Un basso numero di adesioni e con età vicine al pensionamento, qualcosa non funziona. Forse l’incentivo fiscale non è la motivazione principale per chi avrebbe invece più bisogno di pensare al proprio futuro pensionistico e non dispone delle risorse necessarie. E chiudo con una provocazione: il risparmio previdenziale in gestione ammonta a circa 126,3 miliardi e la deduzione dei contributi non consente al fisco di incassare ogni anno circa 3,5 miliardi di imposte. Perché non provare a pensare di abolire la deduzione dei contributi e utilizzare questa cifra come incentivo pubblico per i giovani, magari per i primi anni di adesione, che decidono di aderire alla previdenza complementare? Forse che questo potrebbe contribuire al decollo della previdenza complementare per chi ne ha veramente bisogno?