Le prospettive demografiche

Michela C. Pellicani – Seminario “Previdenza, agire per tempo”

Premessa
Grazie al rigore formale che le dà la matematica delle popolazioni, la demografia costruisce scenari per il futuro che servono spesso ad alimentare paure collettive. Per più di cinquanta anni – dalla pubblicazione dei testi fondamentali di Frank Notestein (Notenstein F., 1945) e di Kingsley Davis (Davis K., 1945) sulla transizione demografica – la paura agitata dalle proiezioni è stata e continua ad essere quella della sovrappopolazione, della pressione che la crescita demografica esercita sulle risorse materiali e sul mezzo di produrre beni di consumo, ossia il lavoro
A livello globale questa paura si è concentrata particolarmente sulle nazioni del Sud del mondo che sono entrate più tardivamente rispetto a quelle del Nord nella fase di crescita rapida. La paura della sovrappopolazione non è ancora passata che, già, una paura inversa ha cominciato a prendere sempre più peso. Il vecchio spettro medievale dello spopolamento, sotto le nuove vesti dell’invecchiamento, è risorto anch’esso minacciando il Sud più subdolamente del Nord, poiché il Sud, vivendo ancora nell’idea dell’esplosione demografica, ha manifestato un marcato ritardo nella presa di coscienza del rallentamento in atto della propria crescita.
Il segnale più chiaro non è stato dato dai demografi, ma da un economista. È, in effetti, da Walt Whitman Rostow che giunge il segnale. Il teorico delle “Tappe dello sviluppo economico ” propone nel suo lavoro – « The Great Population Spike and After » (Rostow W. W., 1998) – una visione iconoclasta della demografia.
La demografia, ci dice Rostow, sarà la preoccupazione principale dei prossimi decenni. Ma non sarà per la ragione che si crede, non perché il pianeta sarà minacciato dalla sovrappopolazione. No, al contrario ci dice Rostow, è la riduzione della crescita e la prospettiva della stagnazione demografica a costituire la vera sfida.
Non si tratta solo di una sfida per i paesi industrializzati, che hanno già familiarizzato con l’idea dell’invecchiamento (anche se non si è ancora trovata la “ricetta” di un nuovo contratto tra le generazioni), ma ugualmente, e forse soprattutto, per i paesi meno sviluppati che non sono preparati a tale cambiamento e ove si è propensi a ritenere che il problema risieda ancora nella crescita demografica troppo rapida.
Cosa è l’invecchiamento, cosa produce invecchiamento, quali soluzioni demografiche
Quando si parla di invecchiamento demografico si commette molto spesso l’errore di concentrare l’attenzione sulle persone anziane (con la relativa difficoltà di definizione della soglia o delle soglie di ingresso nella vecchiaia).
In realtà, la definizione stessa di invecchiamento ci dice che esso si verifica quando la quota/proporzione/percentuale di anziani aumenta all’interno della popolazione totale. Non è, quindi, in termini assoluti che occorre ragionare, bensì in termini relativi ossia di rapporto tra la popolazione anziana e la popolazione totale e, ancor più, di rapporto tra la popolazione anziana e quantomeno le altre due grandi classi d’età: giovani e adulti.
Ma cosa “produce” l’invecchiamento demografico (e non biologico il quale rientra nel campo medico e, al contrario de primo, è ineluttabile ed irreversibile, almeno ad oggi)?
Contrariamente a ciò che si può pensare, è sostanzialmente il calo della fecondità ad alimentare l’invecchiamento (invecchiamento dal basso della piramide dell’età) e non il calo (sarebbe meglio dire posticipo) della mortalità (invecchiamento dall’alto).
Ne consegue che le politiche di contrasto dell’invecchiamento, almeno da un punto di vista strettamente demografico (sulle politiche di contrasto alle sue ripercussioni economiche e sociali potremo tornare in seguito), consisterebbero in concrete politiche pronataliste (non i bonus bebè, anche su questo potremo tornare in seguito) le quali, ovviamente, possono produrre effetti nel futuro ma non correggere i risultati dell’evoluzione passata.
Potrebbe esserci un’altra strada, almeno così sentiamo dirci piuttosto frequentemente e da più parti. Potremmo far ricorso alla terza grande variabile demografica (anche se non unanimemente considerata tale): la migrazione e, nello specifico, l’immigrazione. Quest’ultima potrebbe venire in soccorso con un duplice effetto positivo: da un lato, gli immigrati arrivando generalmente da giovani, andrebbero a compensare quelle nascite che non si sono verificate a causa del drastico calo della fecondità (migrazioni di sostituzione), dall’altro, gli stranieri sono caratterizzati da un livello di fecondità superiore a quello degli autoctoni.
Purtroppo, le cose non stanno esattamente in questi termini o meglio, stanno così solo molto parzialmente. Inoltre, non possono essere trascurate almeno due condizioni che incidono in maniera determinante su questo potenziale effetto benefico: l’orizzonte temporale che fissiamo e la disponibilità da parte della comunità di accoglienza a sostenere i costi (non solo economici) derivanti dall’arrivo di immigrati.
A questo proposito, qualche anno fa, esattamente nel 2000, la Divisione di popolazione delle NU ha pubblicato delle proiezioni demografiche relative ad alcuni paesi particolarmente colpiti dall’invecchiamento (tra cui l’Italia) e ad alcuni aggregati geo-politici.

v. power point (1) Migrazioni di sostituzione o il “vaso delle Danaidi”

Invecchiamento e relazione tra classi d’età e generazioni
Qual è la situazione, ad oggi, in termini di invecchiamento della popolazione italiana?

v. power point (2)

Tab. 1 – Indici di struttura, speranza di vita e età media, Italia, 2003 e 2013

tabella pellicani

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Per cercare di cogliere con più efficacia le evoluzioni della struttura per età possiamo avvalerci di un primo semplice indice di struttura (Is) che ci permette di apprezzare con immediatezza i cambiamenti in termini di peso relativo di ogni classe di età all’interno della popolazione totale.
Is = (t+αPx-x+a / t+αPT / tPx-x+a / tPT) * 100 – 1001
Le trasformazioni strutturali sono così importanti da emergere con estrema evidenza già attraverso una semplice osservazione della Figura 3.
Fig. 3 – Is (variazioni della struttura per età), Italia, 1950-2000 e 2000-2050

tabella pellicani 2

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Tutte le classi di età ne sono toccate e spesso, in modo rilevante. Tra il 1950 e il 2000 si è assistito ad un quasi dimezzamento del peso relativo delle classi d’età giovanili (0-14 anni) e ad un contestuale più che raddoppio delle classi d’età anziane (> 65 anni) che si trasforma facilmente in triplicazione per gli ultrasettantacinquenni. Segnaliamo la perdita di importanza della classe 15-24 anni tanto nel passato quanto nel presumibile futuro che è destinata a lasciare una traccia in termini di alterazione del profilo delle piramidi delle popolazioni osservate. Se si dovesse realizzare l’ipotesi di rimonta della fecondità soggiacente alle proiezioni utilizzate1, nel 2050 dovremmo attenderci una quasi stazionarietà della proporzione di giovanissimi, una riduzione del peso degli adulti (soprattutto dei giovani adulti) e un aumento di quello degli anziani attutito rispetto all’aumento registrato nel 2000.
Come abbiamo visto, la prospettiva convenzionale della demografia, quando si osserva la struttura per età, è di distinguere tre grandi classi d’età: giovani, adulti, anziani e di considerare il rapporto tra le classi estreme e la classe centrale come un indicatore della dipendenza demografica (concetto puramente quantitativo che non rende l’idea del contratto tra le generazioni il quale, a sua volta, deve tenere in considerazione elementi qualitativi per stabilire le modalità e le forme di solidarietà tra attivi e inattivi).
Questa prospettiva prende in considerazione, quindi, aggregati che non corrispondono alle “realtà vissute”, tangibili per gli individui. Ebbene, nel momento in cui ci si interessa ai processi di determinazione della scelta, occorre sforzarsi di immedesimarsi nella situazione che gli individui percepiscono.
Un secondo indice (Ig) ci permette di mettere in relazione diretta le diverse generazioni. La soglia dell’unità rappresenta l’equilibrio (quantitativo) tra generazioni di genitori e figli.
Ig = tPg+γx-x+a / tPgx-x+a 2
Fig. 4 – Ig (relazione tra generazioni), Italia, 1950-2050

tabella pellicani 3

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il commento della curva (Fig. 4) si fa da solo. Una sola annotazione relativa all’indice calcolato per genitori 60-64enni su figli 30-34enni: il 2015 rappresenta un momento di svolta poiché, da un rapporto favorevole ai figli (anche se già “appesantito”) si giunge ad un contesto fortemente squilibrato caratterizzato dalla presenza di 1,5 genitori (anziani) in media per ogni figlio (nel 2030). Il miglioramento finale, benché auspicato, è ancora tutto da verificare.
Al fine di avvicinarsi ancor di più alla “realtà vissuta”, abbiamo, infine, simulato la prospettiva dell’individuo piuttosto che quella della popolazione basandoci sulla constatazione che in demografia (e non solo) il cambiamento può essere interpretato anche come la successione di generazioni che non si “rassomigliano”. Più il cambiamento è rapido, più i contrasti intergenerazionali sono marcati.
In termini appunto generazionali: in una prospettiva orizzontale, è l’ammontare di ogni generazione osservata ad ogni determinata età che varierà e in una prospettiva verticale, è il rapporto tra generazioni di età diverse che cambierà.
Al momento dell’entrata nelle età produttive e riproduttive (25 anni), ci siamo posti la seguente domanda: qual è il carico che i suoi “genitori” (e la prospettiva del loro mantenimento) fanno pesare su di lui?
Abbiamo costruito un indicatore che illustra la valutazione che un individuo medio (in senso statistico) può fare della propria situazione (Fargues Ph. – Pellicani M.C., 2000).
Detto indice, se limitiamo l’analisi alle generazioni nate sino al 2000, quelle che compiranno 25 anni entro il 2025, gode del vantaggio di non comportare alcuna proiezione, cioè alcuna ipotesi sul futuro.

v. power point (3) i.c.a.

i.c.a. = 2 * (lg-30 55 / lg-30 30) / (ISFg * lg25)
Figura 5 – Indice di carico ascendente, Italia, generazioni 1950-2000

tabella pellicani 4

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Conclusioni
In conseguenza di un complesso di circostanze che hanno cambiato profondamente la società e la sua organizzazione, la durata media della vita è raddoppiata in poco più di cento anni. L’aumento del numero di anziani è espressione di una evoluzione positiva, una rivoluzione a dire il vero, che ha permesso di raggiungere traguardi fino a pochi decenni fa giudicati inarrivabili. Nonostante lo scenario sia profondamente mutato, la definizione di “anziano” ancora oggi utilizzata per scandire i tempi della vita sociale, continua a far riferimento alla sola età anagrafica, un indicatore quantitativo che ha la caratteristica di progredire in maniera costante e inalterabile, dal momento della nascita a quello della morte, in modo indipendente dal succedersi delle generazioni e dal mutare dalle condizioni interne ed esterne all’individuo, al suo stato di salute e alla sua vitalità.
Una delle domande sulle quali si sta concentrando l’attenzione sia in ambito scientifico che politico è se all’allungamento della vita corrisponda un aumento della vita in buona salute o se, al contrario, questo comporti un allungamento della vita vissuta in condizioni di malattia e di dipendenza. Il verificarsi dell’uno o dell’altro scenario comporta, ovviamente, importanti conseguenze per gli individui, per le loro famiglie e per la collettività in termini organizzativi e di costi da sostenere per far fronte alla domanda di servizi sanitari e assistenziali.

v. power point (4) Un’unica speranza di vita? La “speranza di salute”

Al momento attuale non si hanno risposte univoche a questa domanda: per alcune condizioni, e soprattutto per quelle di più grave limitazione dell’autonomia personale, l’evoluzione è stata senz’altro positiva garantendo un aumento della vita vissuta in buona salute e comprimendo la cattiva salute verso età sempre più avanzate, tanto da bilanciare, in un certo senso, l’invecchiamento demografico. Per altre condizioni l’evoluzione è molto meno netta ed un giudizio complessivo circa le conseguenze dell’invecchiamento sullo stato di salute della popolazione italiana, risulta incerto.
Per di più, anche se dal punto di vista della qualità degli anni di vita guadagnati il bilancio è globalmente positivo, altri problemi emergono che possono condizionare negativamente gli andamenti futuri e generare aumenti di costi economici e sociali. Si tratta delle diseguaglianze (di genere, territoriali, sociali, economiche) che caratterizzano la sopravvivenza e la salute, producendo divari che possono arrivare anche a diversi anni di vita. E ancora, i rischi di evoluzione negativa sono oggi accresciuti per la prolungata crisi economica che compromette la funzionalità e l’efficacia della sanità pubblica, con costi differenziati sul territorio e per le diverse classi sociali.
L’esperienza di altri Paesi ha dimostrato che la longevità e la buona salute non devono considerarsi dei risultati acquisiti una volta per tutte, e che in caso di crisi il disagio dei gruppi più svantaggiati si trasforma molto rapidamente in una peggiore condizione di salute e un più alto rischio di morte (v. ad esempio Unione Sovietica). Questi scenari negativi possono essere contrastati per varie vie, alcune delle quali non implicano necessariamente l’utilizzo di maggiori risorse.
Agganciare, quindi, l’età pensionabile alla speranza di vita (in Italia come in altri paesi europei), risulta quantomeno meccanico e semplicistico. Vorrebbe dire sancire la dipendenza automatica delle pensioni dalle evoluzioni demografiche senza tener conto delle contemporanee evoluzioni in campo sociale, medico, economico, politico. Per certi versi, addirittura, ciò potrebbe mascherare una debole volontà di portare avanti interventi incisivi finalizzati all’aumento della partecipazione, in particolare femminile e giovanile, al mercato del lavoro o di dedicare adeguati investimenti destinati all’aumento della produttività.