Non credo che lo sceriffo di Nottingham pretendesse dai sudditi, pur per antonomasia vessati, la metà del frutto del loro lavoro come avviene nell’Italia di oggi. Certamente a tanto non ammontavano le imposte medievali ne la tassa sul tè, che pure scatenò la rivoluzione per l’indipendenza americana. Ad essere sincero non ho mai sottoscritto alcun patto. Tuttavia trovo ragionevole che vi siano dei limiti all’esercizio assoluto della personale libertà. Lo richiede la convivenza tra individui, fatti salvi ovviamente alcuni valori non negoziabili che precedono lo Stato. L’istruzione, le infrastrutture, la scuola, rappresentano un costo che non sempre può essere sopportato dal singolo beneficiario. Questi servizi dovrebbero rappresentare un’equa controprestazione per le imposte pagate. Dunque comprendo l’esigenza di contribuire con una parte delle risorse che produco e che questo concorso debba essere proporzionale al reddito e utilizzato con il criterio della solidarietà.
Il demandarne l’utilizzo ai propri rappresentanti eletti, in democrazia è la norma. Il tema si complica quando l’entità delle tasse è eccessiva e quando viene avvertita come sperequata rispetto all’efficienza di servizi. Di più, quando la leva fiscale viene utilizzata in parte rilevante per spese ritenute inutili o per nutrire l’apparato stesso delle istituzioni. Un’avversione che cresce ancor più quando le imposte servono a sanare i deficit di fallimentari avventure imprenditoriali di Stato o quando si costruiscono strade al doppio del loro costo oppure opere di scarso interesse, a inseguire la vanagloria del governante di turno, quando non più privati interessi.
Una delle ragioni cruciali della nostra crisi (e della crisi europea entro cui essa si colloca) è da individuare proprio nell’espansione del prelievo fiscale.
Se non si riuscirà a invertire il processo in atto, questo crescente spostamento di risorse dal settore privato al settore pubblico è destinato a mettere in grave crisi l’intera società occidentale. Deve farci riflettere il fatto che nel corso del ventesimo secolo, nonostante il massiccio ricorso all’indebitamente, la tassazione abbia raggiunto livelli sempre più alti e sia aumentata mediamente di cinque volte nella maggior parte dei Paesi occidentali.
Nel nostro Paese questa dilatazione del prelievo tributario ha raggiunto livelli elevati, soprattutto negli ultimi venticinque anni, così che oggi la situazione è divenuta insostenibile. Dal 1990 al 2015 la pressione fiscale (Apparente) è salita di 5 punti percentuali, passando dal 39% al 44%, e questo spiega in larga misura le difficoltà di un sistema produttivo in cui troppe aziende chiudono o subiscono significative contrazioni. La pressione fiscale reale, cioè tenendo in conto del sommerso che non paga imposte, è giunta al 53%. Vanno ricordate ovviamente anche la total tax rate per le imprese e il cosiddetto cuneo fiscale sul lavoro. Entrambi ci collocano tra i peggiori paesi al mondo. Anche la retorica della lotta all’evasione non ha portato a grandi risultati: si stimano in soli 1 miliardo gli importi recuperati nel 2014.
Nei primi anni del secondo decennio, dal 2011 a ora, mentre il Pil reale calava il prelievo è cresciuto in maniera significativa. Le imposte dirette erano 226,4 miliardi nel 2011 e sono passate a 240,9 miliardi nel 2013 mentre quelle indirette erano 221,7 miliardi (2011) e sono arrivate a 238,6 miliardi nel 2013. Quando un’economia indietreggia e la pressione fiscale cresce, è irragionevole attendersi una ripresa. Spesso le operazioni di riforma del sistema che talora sono state annunciate come riduzioni del prelievo (si pensi alla nuova fiscalità della casa, tra “abolizione” dell’Imu e nuovi tributi come la Tasi) nei fatti hanno finito per pesare sempre più sui bilanci di famiglie e imprese. Sempre nel 2014 si è proceduto ad abbassare l’Irpef sui ceti medio-bassi, ma al tempo stesso sono state introdotte tasse sul risparmio.
Il prelievo alla fonte e l’imposizione indiretta (l’Iva e non solo) rappresentano imposizioni fiscali di cui gli italiani sono certo a conoscenza, ma di cui faticano a valutare il peso. In Italia le imposte sul risparmio – capital gain, imposte di bollo, tobin tax – sono cresciute di 9 miliardi dal 2011-2015. Gli effetti del carico fiscale purtroppo sono moltissimi e perniciosi: la compressione dei consumi e il disincentivo agli investimenti esteri, in primo luogo. Ma altre conseguenze sono la scarsa spinta all’innovazione (che non è certo defiscalizzata) del sistema produttivo, la bassa competitività delle nostre aziende rispetto a quelle di Paesi esteri con un total tax rate decisamente inferiore, l’incentivo all’evasione. Tra gli effetti non mancano, poi, quelli che derivano dalla scarsa efficienza delle spese pubbliche sostenute attraverso l’imposizione fiscale.
Lo Stato che spende non brilla affatto per oculatezza e se la spesa è improduttiva non genera effetti moltiplicatori. Quegli stessi denari in mano a famiglie e imprese, di norma, sarebbero invece un volano per l’economia. Pensandoci non è infondata la massima: quando spendi i tuoi soldi per te, usi la massima attenzione; quando spendi i tuoi soldi per gli altri, stai attento a quanto spendi, ma non alla qualità di cosa compri; quando spendi i soldi degli altri per te, stai attento a cosa compri, ma non a quanto spendi; quando infine spendi i soldi degli altri per gli altri, spesso non ti interessa né cosa compri né quanto spendi. Come solitamente avviene nel caso dello Stato.
Massimo Blasoni, Presidente Centro Studi ImpresaLavoro