La partita Italia-Ue sulla crisi delle Banche
di Giuseppe Pennisi – Formiche
La crisi di alcuni istituti di credito italiani (grandi e piccoli) è sparita da circa una settimana dalle prime pagine dei giornali. Ad esempio, su Il Sole-24 Ore del 17 luglio solo una (quasi invisibile) breve a p. 17 riportava un comunicato dell’ufficio dell’alto rappresentate per la politica estera e di sicurezza dell’Ue, Federica Mogherini, secondo cui ‘il Governo italiano e le autorità europee stanno lavorando positivamente’. Comunicato poco utile perché era da supporsi che le parti in causa stessero lavorando e da auspicarsi che stessero operando ‘positivamente’ verso un accordo.
In effetti, è in corso un negoziato la cui conclusione è tecnicamente semplice, sotto il profilo giuridico (basterebbe un’interpretazione estensiva per un periodo determinato – ad esempio sino al termine del 2016 – per l’applicazione di alcune regole delle direttiva sui dissesti bancari), ma politicamente molto difficile.
In primo luogo, il Governo italiano è stato oggettivamente indebolito dai risultati delle elezione amministrative, è alle prese con la riapertura del dibattito sulla legge elettorale, sta perdendo quota nei sondaggi di un referendum per il quale non è stata ancora stabilita una data ed ha la necessità di giungere ad un accordo ‘bancario’ con l’Ue nel più breve tempo possibile. Tanto il Governo italiano quanto quelli del resto dell’Ue e la stessa Commissione europea (Ce) sanno che le famiglie italiane hanno nei loro portafogli 200 miliardi di euro che, in mancanza di soluzione positiva dei negoziati con l’Ue, verrebbero triturati dal bail in, rendendo ancora più forti le opposizioni all’attuale Esecutivo.
In secondo luogo, la Ce vorrebbe dare una mano al Governo italiano (anche perché non vede alternative all’orizzonte) ma perderebbe di brutto la faccia (dopo la ha già persa giù un paio di volte negli ultimi mesi) se regole appena introdotte con la ratifica di tutte le parti in causa venissero applicate in modo lasco alla loro prima prova per favorire uno ‘degli Stati fondatori’ subito dopo la Brexit.
In terzo luogo – come spiega bene David Schäfer della London School of Economics nel saggio pubblicato nell’ultimo fascicolo del Journal of Common Market Studies – ‘unione bancaria’ si basa sull’’ordoliberalismo’ (il liberalismo delle regole) proprio con il fine (più volte ribadito da Berlino) ‘di rompere il circolo vizioso tra Stati e sistema bancario’. Poco importa se in passato i Länder della Confederazione – non le autorità federali- siano intervenute in aiuto di casse di risparmio e di banche di cui i Länder sono azionisti di riferimento: è un problema di ciascun singolo Land non del Governo federale. Per tale motivo si tratta di istituti non soggetti alla vigilanza della Banca centrale europea ed in gran misura al di fuori dell’unione bancaria.
In quarto luogo, nonostante la buona volontà ai piani alti della Ce e nonostante la disponibilità della Germania a stendere una mano pietosa all’Italia, siamo alla prese con un accordo inter-governativo in cui , salvo fare un ricorso alla Corte di Giustizia Europea (ed avere una sentenza definitiva tra tre-cinque anni), pesa anche il parere degli altri firmatari. Non pochi di loro leggendo i rapporti dalle loro ambasciate a Roma, oppure i giornali italiani ed alcuni quotidiani internazionali, non hanno fiducia in un Governo ed in Parlamento che alla firma ed alla ratifica del trattato di Maastricht si sono impegnati a portare il rapporto debito pubblico: Pil dal 105% al 60% entro un tempo ragionevole e venticinque anni dopo supera il 130% . Un debito pubblico molto elevato in rapporto al prodotto nazionale lordo – è noto- è un nemico della stabilità finanziaria , elemento essenziale per un buon funzionamento del sistema bancario. Infine, non pochi Stati del club dell’unione bancaria, notano che i flebili segni di ripresa in Italia si sono smorzati e si chiedono come possa il sistema bancario riprendere a funzionare bene in un’economia che ristagna o scivola in stagflazione.