Bagni, saline, hotel e funivie: la saga dei Comuni tuttofare
Alessandro Barbera – La Stampa
L’ultima relazione della sezione regionale della Corte dei Conti dice che il bilancio della Sicilia è regolare. Fanno eccezione – definiamoli così – alcuni non trascurabili dettagli. Anzi, trentatré: le società partecipate dalla Regione. C’è chi estrae il sale (Italikali), chi fa consulenza imprenditoriale (Sicilia Sviluppo), chi commercia all’ingrosso (Mercati Agri Alimentari) o produce software (Sicilia e-servizi). A quelle latitudini la crisi dei debiti sovrani non è mai arrivata, diversamente non si spiegherebbero le due acquisizioni dell’anno scorso: le quote dell’aeroporto di Trapani e il 20 per cento di Interpoli siciliani. Per la Corte è impossibile «una valutazione precisa dei valori patrimoniali», «l’assenza di introiti», l’«impatto considerevole derivante dagli oneri sostenuti» per gli oltre settemila dipendenti: più di un miliardo di euro fra il 2009 e il 2012, 300 milioni solo l’anno scorso. Per cogliere fino in fondo le ragioni che spingono i tedeschi a non dare troppo spazio alle richieste di flessibilità dell’Italia è in numeri come questi.
In passato alcuni politici hanno tentato di convincerci che per risolvere il problema basterebbe separare l’Italia in due e liberarsi del Sud. Poi uno scorre un’altra relazione – questa volta della sezione «autonomie» della Corte dei Conti – e capisce perché alla fine gli italiani non gli hanno creduto. Delle circa 7.500 società censite, il 34 per cento stanno nel Nord Ovest, una su quattro nel Nord Est. La sola Provincia di Trento conta quaranta partecipazioni. Gestisce quattro alberghi – fra cui il mitico Hotel Lido Palace – campi da golf, funivie, masi di montagna e distretti tecnologici. Qualcuno obietterà che occorre distinguere fra chi fa utili e chi non li fa. Sappiamo che molte, troppe, fanno più perdite che utili e che l’unica soluzione per risolvere i loro problemi è un piano industriale per accorpare le più importanti. La chiusura delle Province inizia a dare i suoi effetti, se ieri il presidente di Vercelli, in una lettera piccata a Renzi, ha annunciato «la vendita degli ultimi gioielli di famiglia». A titolo di esempio, è sempre più difficile sostenere che abbia senso per il Comune di Treviglio occuparsi di trattamento degli scarti di legname con la “Ecolegno bergamasca”. L’universo delle partecipate italiane conta 87 società per la pesca e la silvicoltura, 166 si occupano di sport e divertimento, 187 fanno commercio all’ingrosso o riparazione di auto e moto. Altre 149 società si occupano di noleggio, viaggi e di «servizi di supporto alle imprese», 106 di costruzioni, 383 gestiscono hotel e ristoranti. Settori nei quali la crisi non è mai davvero arrivata Eppure nel 2012 la società che gestisce gli impianti sportivi di Cortina è riuscita a perdere più di un milione e mezzo di euro.
Fra le grandi città quella specializzata nel mandare in rosso le società controllate è senza dubbio Genova. Non c’è solo il noto caso dell’azienda dei trasporti, meno di dieci milioni nel 2012 e una privatizzazione bloccata dallo sciopero selvaggio degli autisti genovesi. Nella lista della Corte dei Conti svettano “Sportingenova” – i cui due milioni di rosso sono nulla rispetto ai nove persi da “Milanosport spa” – e i 109mila euro persi da “Bagni marina genovese spa”, la società proprietaria di alcune delle spiagge più belle del litorale. Se c’è un settore in cui far tornare i conti non è difficile è quello delle concessioni. Se poi la concessione è una spiaggia e c’è da gestire ombrelloni e bagnini, per andare in perdita occorre impegno.