Il “Decreto Renzi” sul lavoro
Pietro Ichino – Il Foglio
L’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori del 1970 nacque per reazione a una delusione cocente della sinistra politica e sindacale italiana: quella per la clamorosa inefficacia della riforma dei licenziamenti del 1966, contenuta nella cosiddetta “legge della giusta causa”, sulla quale il centro-sinistra aveva puntato molte delle sue carte e il mondo politico si era profondamente diviso. Con lo Statuto dei lavoratori si era quindi inteso far compiere un salto di qualità decisivo – questa volta sì! – alla protezione della stabilità del posto di lavoro, sostituendo la sanzione meramente risarcitoria con la sanzione reintegratoria. Si passava così da una regola che, alla luce delle elaborazioni successive di teoria generale, poteva classificarsi tra le liability rules (se ledi l’interesse del creditore lo devi risarcire secondo un criterio predeterminato) a una regola sostanzialmente classificabile tra le property rules (se ledi il diritto del lavoratore, questi deve essere reintegrato nella posizione originaria garantita dall’ordinamento, salvo che egli stesso liberamente decida di rinunciarvi). Ed effettivamente l’intendimento era quello di dar vita, almeno nelle imprese al di sopra della fatidica soglia dei 15 dipendenti, a un regime di sostanziale job property. Salvi eventi eccezionali e patologici, una volta costituito il rapporto di lavoro il suo titolare non doveva più trovarsi a fare i conti con il mercato del lavoro.
Le conseguenze positive di questa opzione sono immediatamente evidenti: la sicurezza economica costituisce un bene della vita molto importante; e il poter fare affidamento sulla continuità nel tempo del reddito da lavoro consente al lavoratore di spenderlo meglio. Anche se la “polizza assicurativa” per mezzo della quale il lavoratore stesso acquista questa sicurezza comporta il pagamento di un premio assicurativo niente affatto irrilevante: per valutarne l’entità basta confrontare il costo per l’utilizzatore di un’ora di lavoro di un idraulico o di un elettricista autonomo (60-80 euro) e il costo di un’ora della stessa prestazione resa in forma di lavoro subordinato (30-40 euro). La sicurezza derivante dal regime di job property si paga, e in misura salata, con un premio assicurativo.
I costi micro e macro
Col passare del tempo si sono determinate anche altre conseguenze non desiderabili dell’opzione per la protezione forte della stabilità del rapporto di lavoro. La prima e più vistosa è consistita, a partire dalla fine degli anni ’70, in una utilizzazione sempre più diffusa da parte degli imprenditori, nella fascia del lavoro professionalmente più debole, del contratto di collaborazione coordinata e continuativa come strumento per costituire un rapporto di lavoro sostanzialmente dipendente non soltanto a un costo notevolmente più basso, ma anche sfuggendo alle numerose rigidità del rapporto di lavoro subordinato ordinario, e in particolare alla limitazione della facoltà di recesso. Donde il progressivo delinearsi di quel dualismo che avrebbe poi connotato in modo particolarmente intenso il mercato del lavoro italiano nei decenni successivi.
Un’altra conseguenza della protezione forte della stabilità – meno vistosa, ma non per questo meno rilevante – è consistita nell’innescarsi di una “spirale della rigidità”, un alimentarsi reciproco tra la vischiosità del mercato del lavoro, la sua “pericolosità” per chi perde il posto a seguito di un licenziamento, la severità dei giudici nel valutare la giustificazione del licenziamento, lo stigma negativo connesso con l’essere licenziati: motivo a sua volta di una ostilità maggiore del sistema nei confronti del licenziamento e ulteriore incremento della vischiosità del mercato del lavoro, e quindi ancora della severità dei giudici nel settore del tessuto produttivo al quale l’articolo 18 si applica.
Un effetto dannoso di questo gioco sistemico si osserva particolarmente nella pratica – invalsa per la soluzione delle crisi occupazionali aziendali – di disporre prioritariamente la collocazione in Cassa integrazione degli ultracinquantenni, per accompagnarli – attraverso qualche anno di simulazione della prosecuzione del rapporto di lavoro – a una pensione di anzianità ottenibile per lo più intorno ai 57-58 anni di età: un’età nella quale l’aspettativa media di vita supera largamente i venti anni. L’idea sottostante a questa pratica è che la “lesione” del “diritto fondamentale” alla stabilità del posto di lavoro possa essere “risarcita” soltanto con la collocazione in Cassa integrazione in funzione di un pensionamento precoce, sulla base di una rinuncia a priori alla possibilità di ricollocazione del lavoratore, nonostante che nel mercato del lavoro italiano circa un nuovo contratto di lavoro regolare ogni sei venga stipulato con un ultracinquantenne.
Va infine menzionato un effetto negativo del regime di job property tanto importante quanto poco immediatamente evidente: il peggioramento dell’allocazione delle risorse umane nel tessuto produttivo, conseguente al fatto che il lavoratore tende a stabilizzarsi nel primo posto dove ottiene un contratto a tempo indeterminato, rinunciando – per la maggiore vischiosità del mercato e per evitare il passaggio attraverso un periodo di minore stabilità – a cercare l’inserimento in un’azienda dove le sue capacità siano meglio valorizzate.
Il “premio assicurativo” pagato dai lavoratori italiani per la maggiore sicurezza acquistata con l’articolo 18 (oltre che con la politica previdenziale molto generosa degli anni ’70, ’80 e ’90), combinato con la peggiore allocazione delle risorse e minore produttività che ne sono conseguite, contribuisce a spiegare il livello nettamente più basso delle retribuzioni lorde italiane rispetto a quelle degli altri maggiori paesi europei che si registra lungo tutto l’arco dell’ultimo trentennio, nonostante la sempre maggiore mobilità dei capitali, dei piani industriali e delle persone in seno all’Ue.
Le prime autorevoli voci critiche
Fin dagli anni ’80 si sono registrate due voci di giuslavoristi autorevolissimi, e non qualificabili come schierati in difesa degli interessi degli imprenditori, a sostegno dell’opportunità di un intervento riduttivo sull’articolo 18: mi riferisco al progetto di legge n. 1537 presentato da Gino Giugni al Senato nel 1985 (che prevedeva l’innalzamento della soglia dimensionale per l’applicazione della norma a 80 dipendenti) e alla relazione di Luigi Mengoni approvata dall’assemblea del Cnel nel 1985 (dove si esprime un giudizio nettamente negativo sull’esperienza quindicennale della sanzione reintegratoria e si propone la limitazione del suo campo di applicazione ai licenziamenti nulli). Ma al passaggio tra gli anni ’80 e i ’90 fu il timore di un successo del referendum promosso dalla sinistra estrema per l’estensione dell’articolo 18 anche alle imprese con meno di 15 dipendenti a indurre il governo a promuovere un nuovo intervento legislativo su questa materia: la legge n. 108 del 1990, che poco dopo Giugni definirà “un piccolo mostro”, e che realizza in modo modesto l’obiettivo di tutelare i lavoratori delle piccole imprese, ma tutto sommato aumenta la disparità di tutela tra questi e “gli altri”, rafforzando il regime di job property nelle imprese medio-grandi assai più di quanto veniva rafforzato il regime di tutela obbligatoria nelle piccole.
A mettere i piedi nel piatto furono poi, nel 1999, i Radicali, con la promozione del referendum per l’abrogazione dell’articolo 18 e di quello per l’abrogazione della disciplina limitativa del contratto a termine: bocciato quest`ultimo dalla Corte costituzionale, ma ammesso il primo con una importante sentenza che sancì la piena compatibilità con la Costituzione di una disciplina dei licenziamenti che prevedesse soltanto la sanzione risarcitoria e non quella reintegratoria per il licenziamento ritenuto dal giudice ingiustificato. Fallito nella primavera del 2000, per mancato raggiungimento del quorum, il referendum radicale (nel quale, comunque, contro l’abrogazione si registrarono quattro quinti dei voti espressi), nei due anni successivi l’iniziativa per una timida e marginalissima modifica non del contenuto dell’articolo 18, ma soltanto del suo campo di applicazione, venne presa dal secondo governo Berlusconi, con l’appoggio della Confindustria guidata da Antonio D’Amato e la disponibilità della Cisl di Savino Pezzotta e della Uil di Luigi Angeletti. Il tentativo si infranse contro il muro opposto dalla Cgil guidata da Sergio Cofferati.
Nella prima parte della XVI legislatura (2008-2010) esso venne rinnovato dal terzo governo Berlusconi in una forma nuova: come tentativo mirato non a scalfire direttamente il dettato dell’articolo 18, ma – per cosi dire – a svuotarlo dal di dentro, ampliando gli spazi della contrattazione collettiva per la definizione del giustificato motivo e per la devoluzione delle controversie a un arbitro, o riducendo la possibilità per il giudice di sindacare le scelte imprenditoriali sottostanti al licenziamento. Nel “Collegato Lavoro 2010” (legge 4 novembre 2010 n. 183) il tentativo sul piano legislativo è riuscito soltanto per la prima parte, essendo stata bloccata dal Quirinale la disposizione in materia di arbitrato; ma nei primi tre anni di applicazione della legge anche le disposizioni volte a limitare il sindacato del giudice sulle scelte di gestione aziendale si sono rivelate, sul piano pratico, di scarsa efficacia.
Il fatto è che qualsiasi tentativo di riforma mirato ad affrontare la questione soltanto sul versante della disciplina dei licenziamenti è destinato a scontrarsi con una fortissima resistenza da parte non soltanto del movimento sindacale, ma anche dell’opinione pubblica in generale. Se chiediamo all’uomo della strada di valutare le conseguenze di una maggiore libertà di recesso degli imprenditori, nel contesto attuale di marcata vischiosità del mercato del lavoro italiano, egli vedrà soltanto la pericolosità della riforma per il lavoratore che si trovi a dover frequentare un mercato siffatto. Le chance di qualsiasi progetto di riforma della materia dipendono dalla sua capacità di compensare credibilmente la minore stabilità del rapporto di lavoro con una maggiore sicurezza economica e professionale del lavoratore nel mercato.
Si ispira a questa idea, che si riassume nella parola d’ordine della flexsecurity, il progetto del Codice semplificato del lavoro, la cui prima edizione risale al 2009, con i disegni di legge Ichino S-1872 e S-1873 sottoscritti da una metà circa dei senatori del gruppo Pd della XVI legislatura. Qui viene ripresa l’idea, già contenuta nella relazione di Luigi Mengoni del 1985, di limitare drasticamente la sanzione reintegratoria al caso del licenziamento nullo per illiceità dei motivi; la novità consiste invece – oltre che nell’idea della riscrittura semplificata dell’intera legislazione sul lavoro di fonte nazionale – nella proposta di applicare per il licenziamento disciplina- re e per quello economico un “filtro automatico” costituito essenzialmente da un costo aziendale del recesso, finalizzato alla maggiore possibile sicurezza del lavoratore nel passaggio al nuovo posto di lavoro: indennità di licenziamento proporzionata all’anzianità di servizio, e dal terzo anno in poi trattamento complementare di disoccupazione di durata proporzionale all’anzianità stessa, come oggetto di un “contratto di ricollocazione” comprendente anche un servizio di assistenza intensiva nella ricerca della nuova occupazione svolto da un’agenzia specializzata e finanziato con un voucher regionale.
Si arriva cosi alla legislatura in corso, all’inizio della quale i due disegni di legge contenenti il progetto del Codice semplificato vengono ripresentati (rispettivamente come ddl. n. 986 e n. 1006/2013), questa volta ottenendo maggiore attenzione da parte del governo: nel documento Destinazione Italia del settembre 2013, dedicato alla maggiore attrattività del paese per gli investitori stranieri, viene espressamente indicato l’impegno per l’emanazione in tempi rapidi di un testo unico semplificato delle norme sul contratto di lavoro. Lo stesso impegno verrà poi ribadito nel documento Impegno Italia 2014, del 12 febbraio 2014, nella fase finale dell’esperienza del governo guidato da Enrico Letta. Un mese dopo l’impegno per il Codice semplificato è ribadito dal nuovo presidente del Consiglio Matteo Renzi nelle slide con le quali, il 12 marzo, egli presenta alla stampa il programma del suo nuovo governo: è questa la ripresa del primo dei sei punti nei quali lo stesso Renzi aveva sintetizzato il proprio progetto di Jobs Act l’8 gennaio precedente. Sennonché il disegno di legge n. 1464, presentato nell’aprile 2014, contenente la proposta di cinque deleghe legislative in materia di lavoro, non sembra corrispondere agli intendimenti originariamente espressi dal neo segretario del Pd.
Nell’articolo 4 del disegno di legge n. 1464 l’idea del Codice semplificato viene sostituita da quella della “semplificazione dei contratti di lavoro”, intesa come sfrondamento tipologico degli stessi. Riaffiora qui la ormai decennale polemica della sinistra politica e sindacale contro la pretesa “proliferazione dei tipi di contratto di lavoro” che si sarebbe prodotta in Italia per effetto della legge Biagi (dlgs. n. 276/2003), polemica non smorzata dall’osservazione secondo cui quella dei 48 tipi di contratto di lavoro che sarebbero oggi previsti dall’ordinamento italiano è soltanto una leggenda metropolitana. La legge Biagi, in realtà, non ha introdotto nel nostro ordinamento alcun nuovo tipo di contratto di lavoro precario che non esistesse già in precedenza, essendosi essa limitata a rinominarne alcuni disciplinandoli in modo più restrittivo rispetto all’ordinamento previgente.
Il cammino accidentato verso il Jobs Act
Subito dopo la conferenza stampa del capo del governo del 12 marzo viene emanato il decreto Poletti (dl. 20 marzo 2014 n. 34), che interviene sul contratto a termine sostanzialmente liberalizzandolo entro il primo triennio del rapporto di lavoro, ma con il limite massimo del 20 per cento riferito all’organico aziendale a tempo indeterminato, e riduce alcune rigidità della disciplina previgente dell’apprendistato. Quando, leggermente depotenziato ad opera della commissione Lavoro della Camera, il decreto arriva al Senato, l’autore di queste note presenta in commissione un emendamento mirato a riequilibrare i vincoli tra tempo indeterminato e determinato, anticipando la riforma organica delineata nel ddl n.1006/2013, con l’introduzione per il primo triennio di un costo di separazione identico nel caso di scadenza del termine senza proroga, o rinnovo, o conversione in contratto a tempo indeterminato, e per il caso di licenziamento non giustificato da grave mancanza del lavoratore, con esclusione in questo caso della sanzione reintegratoria. Su questo emendamento si manifestano consensi convergenti da parte sia di numerosi senatori del Pd – non soltanto dell’area renziana, ma anche, sorprendentemente, dell’ala sinistra del gruppo, che percepisce il rischio di una dilatazione ulteriore dell’area del lavoro a termine rispetto a quello a tempo indeterminato – sia dei senatori del Nuovo Centrodestra e di Forza Italia. Il 5 maggio, nel corso di una tesa riunione di maggioranza con la partecipazione del ministro del Lavoro in rappresentanza del governo, viene raggiunto un accordo: ritiro dell’emendamento in cambio dell’inserimento nell’articolo 1, comma 1 del decreto di una “premessa” contenente il preannuncio della “adozione di un testo unico semplificato della disciplina dei rapporti di lavoro, con la previsione sperimentale del contratto di lavoro a tempo indeterminato a protezione crescente, e salva l’articolazione attuale delle tipologie dei contratti di lavoro”. La formulazione di questa premessa è attentamente studiata al fine di chiarire che la legge-delega in gestazione al Senato darà mandato al governo di emanare un Codice semplificato nel quale il contratto a tempo indeterminato sarà disciplinato secondo il modello delle protezioni crescenti. Che questa nuova disciplina debba innestarsi sul contratto a tempo indeterminato ordinario, e non su di un tipo contrattuale nuovo e diverso (il “contratto di inserimento”) è chiarito con le parole “salva l’articolazione attuale delle tipologie dei contratti di lavoro”.
Archiviata la pratica del decreto Poletti con la sua approvazione in terza lettura alla Camera, premessa compresa, la commissione Lavoro del Senato riprende il suo lavoro sul disegno di legge-delega n. 1464, destinato a diventare la parte più rilevante della riforma che va sotto il nome di Jobs Act. Del contenuto originario dell’articolo 4 – assai poco incisivo, e per almeno un aspetto anche contraddittorio – si è detto sopra; i primi due articoli del disegno di legge governativo sono invece dedicati rispettivamente al completamento della riforma degli ammortizzatori sociali e dei servizi per l’impiego avviata con la legge Fornero 2012, e si pongono sostanzialmen- te in continuità rispetto ad essa.
Nella fase di esame del disegno di legge in commissione al Senato, in sede referente, tra giugno e luglio 2014, si manifesta la convergenza di una parte consistente dei senatori di maggioranza (una parte del gruppo Pd e tutti gli altri, tra i quali il presidente della commissione e relatore sul provvedimento Maurizio Sacconi) su di una visione precisa del passaggio dal vecchio regime di job property a un nuovo regime di flexsecurity, articolata in tre capitoli fra loro strettamente interconnessi: Codice semplificato e contratto a protezione crescente, nuovo assetto degli ammortizzatori sociali, nuovo assetto dei servizi per l’impiego. L’idea è innanzitutto di ricondurre la Cassa integrazione alla sua funzione originaria, facendone cessare l’utilizzazione sostanzialmente sostitutiva del trattamento di disoccupazione, e al tempo stesso rafforzando ed estendendo il trattamento universale di disoccupazione sia nella sua componente previdenziale (finanziata con la contribuzione a carico delle imprese), sia nella sua componente assistenziale (reddito minimo di inserimento, a carico della fiscalità generale): è la materia dell’articolo 1 del disegno di legge. Il perfezionamento della sicurezza economica e professionale nel mercato per chi perde il posto viene affidato a un riassetto dei servizi per l’impiego centrato sull’integrazione fra servizio pubblico e agenzie private accreditate, retribuite mediante un voucher regionale a risultato ottenuto: è la materia dell’articolo 2 del disegno di legge. Lo strumento giuridico essenziale di questa integrazione pubblico-privato, secondo la visione che matura in seno alla commissione, è costituito dal “contratto di ricollocazione”, la cui sperimentazione è gia prevista in una disposizione della legge di stabilità 2014 (1. 27 dicembre 2013 n. 147, art. 1, c. 215), anche se l’emanazione del relativo regolamento attuativo è in grave ritardo.
Fin qui la visione della riforma organica e condivisa da tutti i senatori Pd in commissione. Dove invece una parte maggioritaria di essi manifesta un atteggiamento di riluttanza, se non proprio di rifiuto, è sul capitolo del Codice semplificato, ovvero della delega al governo per una riscrittura radicale della disciplina del rapporto di lavoro all’insegna del recupero dell’universalità di applicazione, della chiarezza e semplicità del testo legislativo, e della coniugazione della flessibilità delle strutture produttive con la sicurezza del lavoratore nel mercato Qui nella fase di discussione del disegno di legge-delega si registra un passo indietro rispetto all’accordo raggiunto in sede di esame in seconda lettura del decreto Poletti, concretatosi nella ormai famosa “premessa” inserita nel decreto stesso. Durante la pausa d’agosto sulla stampa si riaprono le ostilità in tema di articolo 18, a seguito di ripetuti proclami di Alfano nei quali è difficile non sentire il sapore un po’ stucchevole della riproposizione della vecchia discussione male impostata. La posta in gioco è ora molto più ampia e complessa rispetto alla pura e semplice modifica della norma sulla facoltà di recesso del datore di lavoro: se si vuole voltar pagina rispetto al regime di job property occorre sostituire tutte le tessere del mosaico.