Fondazioni e banche, il sonno della politica
Federico Fubini – Affari & Finanza
Qualche anno fa il sistema bancario italiano, come l’intero Paese, è entrato in una zona d’ombra in cui l’imperativo non era migliorarsi. Era vivere. Non c’era tempo per ripensare le strutture di governo del sistema finanziario, anche se molto è già stato fatto per renderle più credibili. Poí è iniziata la stagione degli esami europei sugli istituti di credito in vista del passaggio della vigilanza a Francoforte, e anche quella ha congelato qualunque altra priorità. Tra poco però giustificazioni del genere non varranno più, perché il passato recente ha lasciato tracce profonde.
Se c’è qualcosa che colpisce per esempio nel disastro di Mps, nove miliardi di perdite dal 2011 per gli errori della vecchia gestione, è l’ambivalenza nel Paese. Il sistema Italia ha risposto con sorprendente efficienza ai problemi della banca ma ha evitato di intervenire sui modelli di gestione che l’hanno generato. Il governo ha tenuto in piedi Mps, permettendo ai contribuenti di guadagnare con gli alti interessi sui prestiti a Siena; le élite del mondo finanziario hanno messo a disposizione manager capaci per la nuova gestione; la Banca d’Italia ha spinto sul rafforzamento del bilancio e del capitale della banca, e continuerà a farlo dopo gli stress test europei; l’establishment del Paese è riuscito a dare leader più trasparenti e sensati alla fondazione. Eppure nessuno ha mai fatto chiarezza sulla domanda di fondo: Montepaschi è stata un’anomalia o un caso estremo?
Gli investimenti scriteriati, l’ansia da scalate a prezzi illogici, i prestiti clientelari sono il frutto della specifica inettitudine di pochi: non si trovano in Italia altri casi del genere fra le grandi banche (fra le medie e piccole sì). Ma un recente rapporto del Fmi sottolinea alcuni problemi sistemici senza i quali per Mps non sarebbe mai finita così. L’Fmi mostra che le fondazioni sono ancora molto influenti sulle banche, e certo le hanno aiutate ad attraversare la crisi. In Intesa Sanpaolo e Unicredit, due istituti gestiti molto meglio del vecchio Monte, esprimono oltre l’80% dei posti in consiglio rispettivamente con il 25% e il 9% delle azioni. In 35 banche hanno più del 20% del capitale e di fatto le controllano. E solo un quarto delle fondazioni è davvero uscito dal mondo del credito.
Questi enti, accusa l’Fmi, sono dominati dai politici, con il 47% dei loro consigli eletto dalle amministrazioni locali. Sono soggetti a conflitti d’interesse. Le fondazioni non sono costrette a pubblicare conti certificati, non hanno limiti sul loro indebitamento e sono sottoposte a una vigilanza debole: una sentenza della Corte costituzionale del 2003 limita i poteri di controllo del Tesoro e questo vuoto da allora non è mai stato colmato. Gli ex sindaci dell’Italia centrale che oggi sono a Palazzo Chigi di questi problemi hanno una conoscenza di prima mano. Dovrebbero occuparsene. Oppure non potranno sostenere che il prossimo caso “à la Mps” è stato solo sfortuna.