I “bersagli” mancati dalla manovra del governo
Giuseppe Pennisi – IlSussidiario.net
Il disegno di Legge di stabilità è finalmente giunto all’esame del Parlamento, dopo alcune giornate in cui giravano, su Internet, varie bozze, accompagnate da annunci di aggiunte, integrazioni e modifiche e mentre a Bruxelles si stava redigendo una lettera piuttosto pesante in base alla documentazione (peraltro molto scarna) ricevuta il 15 e il 16 ottobre. I dieci giorni di “vaglio parlamentare” che si sono perduti rendono più difficile il ruolo delle Assemblee di migliorare il testo con emendamenti. Rendono, però, più facile quello dei commentatori di approfondire gli aspetti fondamentali e della proposta e del modo in cui è stata presentata.
Il Governo – lo sappiamo – si è posto due obiettivi principali, tenendo conto di un vincolo anch’esso principale. In termini matematici, è una funzione di massimizzazione vincolata. I due obiettivi principali sono: riportare il Paese a un tasso di crescita compatibile con una demografia e una struttura produttiva anziana (ossia 1,3% per anno, secondo le stime del “potenziale” italiano di crescita di Bce, Ocse e Fmi) e migliorare la distribuzione del reddito. Il vincolo consiste mantenere l’indebitamento netto delle pubbliche amministrazioni al di sotto del 3% del Pil.
È rispetto a questi obiettivi vincolati che si deve analizzare un disegno di legge, diventato un po’ come un albero di Natale a ragione di un aspetto non economico ma puramente politico: il Presidente del Consiglio, a torto o a ragione, si considera in campagna elettorale permanente e, quindi, un provvedimento che dovrebbe essere semplice e lineare viene utilizzato per accontentare una vasta platea di “clientes”, come d’altro canto fatto da numerosi suoi predecessori. Eloquente l’inchino alle concessionarie autostradali.
I due obiettivi vengono visti dal Governo (o almeno da alcuni dei suoi principali consiglieri) come strettamente interconnessi. Si può essere d’accordo o meno con la visione secondo cui l’aumento dei consumi delle fasce più basse di reddito è leva essenziale per la crescita. È un approccio sostenuto da numerosi economisti, principalmente da quelli di scuola neokeynesiana ma anche da numerosi di orientamento neoclassico. Tra gli obiettivi principali non viene inclusa la riduzione dello stock di debito pubblico, né in termini assoluti, né in rapporto al Pil. Anche questa è materia opinabile perché, pur se i lavori econometrici sinora effettuati non hanno precisato “di quanto” la crescita è frenata dal fardello del debito, verosimilmente si perde tra lo 0,5% e l’1% di Pil l’anno portando il “potenziale” di espansione tra lo 0,3% e lo 0,8% del Pil.
In questo quadro, chiediamoci asetticamente se il disegno di legge raggiunge gli obiettivi nel rispetto del vincolo. La riduzione complessiva delle entrate (ossia del carico tributario e contributivo) sarebbe appena dello 0,1%, assumendo che si realizzino tutte le ipotesi alla base del provvedimento (anche quelle che in passato si sono sempre mostrate aleatorie, quali le entrate aggiuntive dovute alla lotta all’evasione). È molto più verosimile, come già evidenziato dal Centro Studi Impresalavoro, che la pressione fiscale e parafiscale aumenti a ragione dello “scattare” delle “clausole di salvaguardia” che comportano un aggravio dell’Iva di un punto percentuale, penalizzando, principalmente, tutte quelle fasce a reddito basso. Le entrate, poi, crescono principalmente per l’imposizione sul Tfr in busta paga, sempre che i lavoratori scelgano questa opzione (che li danneggerà sia ora, sia in futuro). Il disavanzo, poi, verrebbe contenuto in un po’ più di 7 miliardi, rispetto agli 11 mostrati nelle slides presentate il 15 ottobre. Data la deflazione in atto, è probabile che sarà molto più elevato (e per questo motivo si dovrà aumentare l’Iva).
Indubbiamente le imprese utilizzeranno al meglio le opportunità loro offerta dalla riduzione parziale dell’Irap. Ciò non basterà però a stimolare la ripresa. Anche perché, il grande maestro della comunicazione (il Presidente del Consiglio Matteo Renzi) ha commesso errori cruciali di comunicazione. E la comunicazione può incidere sull’andamento dell’economia, come dimostrato non solo da due libri di alcuni anni fa della Scuola nazionale dell’amministrazione (parte integrante della Presidenza del consiglio), ma anche da lavori accademici recenti dell’Union des Banques Suisses e della britannica Brunei University. Il primo è stato il senso generale di sciatteria (con numeri che ballavano sino a dieci giorni di una scadenza rispettata dai partner europei). Il secondo è costituito da diverse comunicazioni controproducenti: ad esempio, l’annuncio sullo spostamento della data di pagamento delle pensioni ha portato almeno 15 sui 26 milioni di pensionati a rivedere i loro programmi di spesa anche per consumi essenziali, accentuando le spinte che ci stanno portando verso una deflazione sempre più pericolosa. In barba agli 80 euro per i redditi bassi e al “bonus bebè” diretto essenzialmente all’elettorato del ceto medio.