I mercati chiusi che bloccano la nostra crescita
Daniele Manca – Corriere Economia
I tempi non sono più quelli nei quali mercati aperti, libero movimento di capitali e merci, garantivano sviluppo e crescita. Anzi, ogni Paese sembra richiudersi in se stesso tentando di trovare al proprio interno – e a spese dei partner – una propria via di difesa dalla crisi. Niente di più sbagliato. Il mercato delle telecomunicazioni ha permesso all’Europa una leadership, poi perduta, grazie a innovazione, concorrenza e massima apertura.
Lo stesso non si può dire dell’energia. Vale per l’Italia come anche per l’intero Vecchio Continente. Scambiare energia tra i vari Paesi dell’Unione è tutt’altro che facile (il gas poi fa caso a parte). Succede così che la produzione in eccesso, soprattutto da fonti rinnovabili che proviene da Paesi come la Spagna, ma anche da tutta la zona scandinava e dalla Norvegia, non possa arrivare in nazioni che ne hanno bisogno. Energia che viene dispersa. Come può essere efficiente un mercato quando il peso della tasse tra Germania e Danimarca e tra il 50% e il 60% del prezzo finale mentre in Gran Bretagna la percentuale scende al 5%?
Il confronto con gli Stati Uniti è drammatico in termini di prezzo dell’elettricità rispetto a quello in Europa. È la conseguenza di scelte che hanno portato ad avviare la ricerca dello shale gas, da noi osteggiato per motivi ambientali. Ma anche di quello che è a tutti gli effetti un mercato unico. Che significa interconnessione delle reti nazionali e convergenza dei prezzi. In tempi di crisi la strada è ancora più difficile. Ma nel dopoguerra la situazione non era certo meno complicata. Eppure, la lungimiranza di capire che andavano superati i confini nazionali, se quello che si cercava era un futuro più prospero, non è mai mancata. Oggi quella consapevolezza dove è finita?