Leggere una legge
Paolo Cirino Pomicino – Il Foglio
Secondo le migliori tradizioni del giornalismo economico, quando ci si trova dinanzi a una manovra finanziaria di fine d’anno e per giunta di questa portata, prudenza impone di leggere prima le norme e poi dare un giudizio completo. Come si sa, infatti, il diavolo si nasconde nei dettagli. Detto questo, una prima valutazione può essere fatta sulla base delle dichiarazioni del presidente del Consiglio e sulle tabelle consegnate in sala stampa. Diciamo subito che questa legge di stabilità presenta alcune luci, diverse ombre e due bugie.
Partiamo dalle luci. La riduzione dell’Irap escludendo dal suo calcolo il monte salari è una scelta che va nella giusta direzione perché alleggerisce il carico fiscale sulle imprese oppresse da diversi anni da una pressione tributaria e contributiva anomala e da una grave crisi della domanda interna e internazionale. È vero che questa norma premia maggiormente le medie e le grandi aziende, ma d’altro canto sono quelle che hanno il maggior numero di occupati. Altra scelta positiva è la vecchia fiscalizzazione degli oneri sociali (cosi si chiamava all’epoca) per i nuovi assunti con un contratto a tempo indeterminato e per soli tre anni, Questa norma abbassa, insieme alla riduzione dell’Irap, il costo del lavoro in maniera significativa e orienta le imprese ad assumere con questo tipo di contratto rispetto alle altre tipologie vigenti. Ma qui finiscono le luci, salvo scoprire nell’intero provvedimento qualche altra cosa di buono.
Le ombre, invece, sono diverse e nella sostanza riguardano i tagli per 15 miliardi di spesa. Innanzitutto è da verificare nel concreto se questi tagli esistono per davvero, e se esistono come noi crediamo perché parte di essi sono tagli lineari ai trasferimenti alle regioni, province e comuni, bisogna capire a cosa danno origine. La cosa più probabile è che parte di essi si trasformeranno in più alte imposte locali mentre un’altra parte si trasformerà in una riduzione della spesa in conto capitale delle regioni e degli enti locali. Entrambi gli effetti andranno a vanificare in parte quelle misure che abbiamo definito come le luci del provvedimento approvato. D’altro canto, affrontando un equilibrio dei conti pubblici e un rilancio della crescita con gli ordinari strumenti a disposizione, difficilmente si può sfuggire a questi effetti uguali e contrari. Come è noto, noi eravamo e siamo tra quanti ritengono che solo un abbattimento di una parte significativa del debito può dare delle risorse fresche perché riduce quella spesa per interessi che da circa 80 miliardi alla finanza nazionale e internazionale, senza dover ricorrere a tagli che amplificano gli input recessivi. Non è un caso che l’Italia quest’anno sarà l’unico paese dell’Eurozona a rimanere con un pil negativo.
E qui passiamo alle bugie. Le prime sono le previsioni in gran parte sbagliate. Quest’anno la nostra crescita negativa, se avviene un miracolo nelll’ultimo trimestre, si può fermare a meno 05-0,6 per cento, cioè circa il doppio di quanto previsto nel documento finanziario con un trascinamento negativo anche sulla prima parte dell’anno prossimo che prevede, peraltro, una striminzita crescita positiva dello 0,6 per il 2015 e che sarà a rischio. Perché in questa manovra manca l’altro tassello fondamentale per fare uscire l’ltalia dal tunnel, e cioè gli investimenti pubblici. Viviamo una crisi della domanda, che non si accresce mettendo un po’ di soldi in più nelle tasche di chi ha già un reddito (80 euro o il tfr nella busta paga), perché in costanza di crisi questi soldi si trasformano in risparmi per un futuro che resta ancora incerto. La domanda si accresce se si allarga la base occupazionale e il “la” lo danno gli investimenti pubblici che languono e ora rischiano di diminuire ulteriormente sul versante degli enti locali. Alla stessa maniera manca qualunque incentivo per gli investimenti privati, come un più rapido ammortamento degli investimenti fatti nei prossimi 18 mesi, una norma premiante a termine, capace di sollecitare le aziende a cogliere questa opportunità e ad anticipare i propri investimenti.
Abbiamo lasciato per ultima la bugia più grande perché ci intenerisce come una vecchia gag di Totò. Il presidente del Consiglio ha detto che con questa manovra si tolgono 18 miliardi di tasse. Non è vero. Renzi calcola come riduzione di tasse il mantenimento dei famosi 80 euro del maggio scorso. Se non li avesse confermati noi avremmo avuto un aumento delle tasse; avendoli confermati, l’aumento non c’è stato, ma nemmeno la riduzione rispetto all’anno che sta per finire. Per dirla meglio, se la detrazione che produce il beneficio degli 80 euro viene fatta con norme che si rinnovano anno dopo anno, secondo Renzi dopo 5 anni avremo ridotto la pressione fiscale di 50 miliardi o saremo rimasti sempre al palo di quelle detrazioni che danno i famosi 80 euro? Si dia una risposta! Se non volessimo bene a Renzi, ai suoi lupetti e ai tanti dc presenti nel governo e nel Pd, diremmo che questa comunicazione è un imbroglio. In verità è il frutto di una velenosa tentazione mediatica e di una giovinezza goliardica. Certo è che la riduzione della pressione fiscale è solo quella dell’Irap e quella contributiva è nei limiti di due miliardi per l’esenzione contributiva dei nuovi assunti con contratto a tempo indeterminato. Non pochi ma molto lontani da ciò che serve all’Italia per uscire dalle secche.