La scoperta dell’ennesimo e maleodorante incrocio tra politica e malaffare (quella che i giornali hanno ribattezzato come Mafia Capitale) ha spinto vari commentatori a indulgere in un melenso moralismo e, non si rado, perfino nell’esaltazione di quell’etica pubblica che glorificando il ruolo dello Stato potrebbe perfino aggravare i problemi. È del tutto evidente, infatti, che la corruzione è figlia in primo luogo di una presenza abnorme del potere nella vita economica e sociale e che, per questo motivo, la strada maestra per riportare correttezza e serietà nei comportamenti di tutti (a partire da politici, imprenditori e burocrati) consiste nel ridimensionare il ruolo del settore pubblico.
Contro i comportamenti spregiudicati di una parte non piccola del ceto politico sembra che la risposta sia una sola: mettiamo gli “onesti” al posto dei “corrotti”. Il problema è che non vi è alcun modo di sapere davvero, in anticipo, chi si comporterà bene e chi no, e per giunta quanti agitano la bandiera della moralità in politica il più delle volte sono talmente superficiali e giacobini nel formulare le loro condanne (spesso in assenza di prove) da non poterli considerare davvero quali persone integre. Non è immorale soltanto il comportamento di chi pretende una tangente, ma anche quello di chi distrugge l’immagine altrui sulla base di voci, accuse infondate, pregiudizi ideologici e antropologici.
Bisogna anche comprendere che l’Italia non è corrotta “per natura”, così come non sono naturalmente destinati a essere dominati dal racket i paesi africani o quelli comunisti. Tutte queste società sono però vittime dei latrocini semplicemente perché una parte spropositata delle risorse è costantemente mediata o controllata dalla politica. Se costituiamo centri di potere che possono o non possono concedere autorizzazioni, elargire finanziamenti e produrre norme ad hoc, gestire questo o quel settore on assoluto monopolio, non possiamo stupirci se attireranno i soggetti più spregiudicati e senza scrupoli.
Chi legge con attenzione le cronache della Tangentopoli romana avverte subito come tutto ruoti attorno al denaro dei contribuenti. Una massa troppo grande di risorse è gestita da politici e burocrati, e questo permette facili arricchimenti da parte di persone senza scrupoli. Ridurre la spesa pubblica porterebbe, ovviamente, a ridurre anche questa economia illegale e parassitaria.
Più dei corrotti (una quota di persone senza dignità vi è in ogni paese) siamo allora rovinati da quanti sono schierati a difesa di uno Stato onnipotente, che gestisce l’assistenza sociale e l’urbanistica, la sanità e l’energia, i trasporti e la cultura, e che in questo modo tiene costantemente sotto scacco anche quella quota di economia che permane privata. In tale situazione gli imprenditori peggiori possono fare soldi sottraendosi al mercato (dove si deve soddisfare la domanda del pubblico), ma grazie ai favori dell’amico che ha fatto carriera in un partito e del compare che si è incistato in questo o quel Palazzo.
Ci sono, allora, non soltanto serie ragioni economiche perché si operi una massiccia privatizzazione del parastato, con la quale si ridimensionerebbe il mostruoso debito pubblico che grava sul nostro futuro. Quella che è in gioco è la stessa possibilità di avere meno corruzione e una politica un po’ meno indecente.