Il paradosso sul lavoro: cresce solo per gli stranieri

di Massimo Blasoni

L’argomento è spinoso e si presta a più interpretazioni, tuttavia i dati Istat e quelli pubblicati da Eurostat lo scorso marzo ci consegnano un dato emblematico: negli ultimi dieci anni gli occupati stranieri in Italia sono cresciuti di 765mila unità e hanno in parte «sostituito» quelli italiani, scesi nel frattempo di 640mila unità. Il tasso di occupazione nel nostro Paese, cioè la percentuale delle persone al lavoro sul totale degli adulti, è uno dei più bassi in Europa. Lavora il 57,7% degli italiani, un dato di quasi venti punti percentuali inferiore a quello tedesco e britannico. Se però consideriamo i soli stranieri presenti nel nostro Paese la percentuale sale sfiorando il 60%. L’Italia è tra i pochissimi Paesi europei in cui i cittadini stranieri sono mediamente occupati in maggior numero rispetto ai cittadini nazionali. Certo, dobbiamo apprezzare che i posti di lavoro in Italia stiano, se pur lentamente, crescendo. Occorre però chiedersi se sia opportuno questo effetto di sostituzione, visto l’elevato livello di disoccupazione soprattutto giovanile e le difficoltà di reimpiego per gli ultracinquantenni che perdono un posto di lavoro: per molti trovare un’occupazione è un miraggio. Insomma, è ancora vero che gli stranieri vengono per fare i lavori rifiutati dagli italiani oppure contribuiscono ad accrescere la disoccupazione? Un dubbio amletico. Peraltro, dato che le statistiche si riferiscono al periodo 2008–2018, non si può nemmeno dire che la minor occupazione nazionale dipenda dal reddito di cittadinanza. Una misura, quest’ultima, che potrebbe favorire una minor propensione ad accettare lavori a bassa retribuzione ma i cui effetti eventualmente troveremo nei report del prossimo anno.