C’è qualcosa di ingenuo, ipocrita e – sotto certi aspetti – anche di ridicolo nel riformismo renziano in tema di televisioni. Come ha annunciato la rivoluzione nel campo della televisione pubblica l’attuale premier? La retorica è simil-grillina, perché in definitiva il messaggio che si vuole far passare è che, finalmente, i partiti saranno messi alla porta. Non quindi la lottizzazione “hard” di alcuni decenni fa (con Rai Uno alla Dc, Rai Due al Psi e Rai Tre al Pci) e neppure quella più “soft” dei tempi recenti, caratterizzati da un intreccio più complesso di ruoli e poteri. Tutto questo sarebbe accantonato per veder nascere una nuova Rai con solo sette consiglieri di amministrazione invece che nove, uno dei quali eletti addirittura dai dipendenti.
Una rivoluzione? Macché. Se guardiamo nel dettaglio il governo si riserva la scelta di tre consiglieri e altri tre sono eletti dalle Camere in seduta comune. Il risultato è che governo e maggioranza sono più che sicuri di poter controllare la Rai (esattamente come adesso), lasciando uno spazio pure alla minoranza. Il che non guasta mai. Per giunta si è strutturata la riforma immaginando un peso rilevante – da leader assoluto e vera mente di tutta l’azienda – per un amministratore delegato dotato di ampi poteri in ogni direzione: programmi, scelta degli uomini, gestione del bilancio.
Renzi sa che se, grazie al (facile) controllo della maggioranza del Cda, egli riesce a mettere un uomo di sua assoluta fiducia alla testa della Rai questi gli può assicurare una linea editoriale, e non solo, del tutto schierata dalla sua parte. Il resto è aria fritta. Infatti il progetto parla di una Rai Uno generalista, di una Rai Due dedicata all’innovazione (qualsiasi cosa ciò voglia dire) e di Rai Tre una culturale. Ma il cuore della questione è che la politica non si ritrae affatto e anzi, sotto certi punti di vista, il governo rafforza il proprio controllo sul colosso televisivo pubblico. Un controllo importante per il numero dei dipendenti e per il ruolo propagandistico che la Rai ha sempre svolto e continuerà a svolgere a favore di questo o quello.
Una vera riforma, ovviamente, consisterebbe nel vendere la Rai e nell’aprire a chiunque, italiano o no, il mercato delle televisioni. Ovviamente tutto ciò l’attuale governo non vuole farlo per una serie di ragioni che illustrano assai bene i limiti del preteso “riformismo” renziano.
In primo luogo, l’ex-sindaco della città di Machiavelli non intende assolutamente ridurre la presa sulle risorse (anche umane) e sulla potenza di fuoco della televisione di Stato. Renzi è un politico a tutto tondo, che negli anni passati a Firenze – inizialmente alla guida della Provincia e poi alla testa dei Comune – ha imparato assai bene a gestire il nesso tra risorse finanziarie, voti e controllo sociale. Il suo realismo gli impedisce di essere davvero un riformatore, perché per farlo dovrebbe rinunciare a una parte rilevante dell’artiglieria di cui dispone.
In secondo luogo, manca la minima consapevolezza culturale di cosa voglia dire indirizzarsi verso una società libera. I toni liberali che talvolta possono affiorare nella retorica del premier sono funzionali a obiettivi politici di piccolo cabotaggio – come nel caso delle polemiche con la Cgil – oppure a costruire una retorica in grado di attrarre gli elettori moderati. Ma nulla è più lontano dalla sua cultura che l’idea di un’informazione davvero aperta, senza interferenze statali, senza una programmazione e senza regolazione di Stato.
La riforma della Rai immaginata da Renzi è insomma all’insegna del gattopardismo. E in questo modo stiamo sprecando un’altra opportunità.