Il paradosso europeo che difende le sue Pmi meno degli Stati Uniti
Rainer Masera – Affari & Finanza
Il G20 di Brisbane ha rappresentato l’occasione per il Financial Stability Board (FSB) di rendere pubbliche le proposte sulla schema di “risoluzione” delle grandi banche in difficoltà, quelle “troppo grandi per fallire”. Si tratta di un passo fondamentale del processo di riregolazione bancaria dopo la crisi del 2007-09. Il modello è imperniato sul rafforzamento importante della capacità complessiva di assorbimento delle perdite (TLAC) e sulle procedure di risoluzione per le banche globali sistematicamente rilevanti (GSIB). È rivolto a impedire che si ripetano salvataggi di banche con contributi del taxpayer, per il timore di implosione del sistema finanziario e dell’attività economica in caso di fallimento. Per le 30 banche sistemiche (l’unica italiana è Unicredit) si sostituisce al bail-out dei contribuenti il bail-in di azionisti e obbligazionisti. Le regole TLAC in discussione prevedono che circa il 20% del totale attivo ponderato per il rischio dovrà avere come controparte capitale o debito che possa essere convertito in capitale: prime stime indicano che i fabbisogni aggiuntivi per le banche europee sono dell’ordine di 500 miliardi di euro. In realtà, anche altre forme di debito potranno esser attratte da perdite in caso di risoluzione.
La crisi finanziaria ha sottolineato l’esigenza di affiancare alla sorveglianza microprudenziale (rivolta all’esame delle singole banche) quella macroprudenziale (orientata alla salvaguardia della stabilità dell’intero sistema finanziario). Proprio considerazioni macroprudenziali avevano indotto ad accettare dopo il fallimento Lehman il bail-out di molte banche, ma hanno imposto di modificare le regole per prevenire il ripetersi dell’azzardo morale e dell’iniquità di un assetto dove le eventuali grandi perdite delle GSIB erano socializzate, ma i guadagni connessi a eccesso di rischio o addirittura a malversazioni erano comunque privatizzati. La necessità di una simultanea valutazione della supervisione ai livelli micro e macro può essere declinata secondo due chiavi di analisi naturalmente non esaustive. In primo luogo, il modello FSB si impernia sull’esigenza che le banche globali incorporino e internalizzino la salvaguardia della stabilità finanziaria. La loro stessa impronta sistemica richiede coefficienti di capitale e presidi prudenziali che vanno ben al di là delle regole di Basilea. In secondo luogo, si afferma il principio di un modello di sorveglianza non unitario: su questa fondamentale questione si danno risposte diverse al di qua e al di là dell’Atlantico.
Negli Stati Uniti il Dodd Frank Act del 2010 e la normativa di implementazione di Basilea 3 sono improntati al presupposto che le regole di capitale e di sorveglianza devono essere diversificate a seconda delle dimensioni, del modello di business e della complessità delle banche. Una taglia unica di vigilanza sarebbe inappropriata non solo perché trascurerebbe l’impronta sistemica, ma anche perché sarebbe un fattore di distorsione competitivo. Le piccole/medie banche retail (PMB) dovrebbero far fronte a costi (operativi e di personale) di compliance non proporzionali rispetto a regole sempre più numerose, complesse e articolate. Negli Stati Uniti, ad esempio, le PMB non devono corrispondere alle regole sullo stress testing, sui vincoli di liquidità e sui piani di risoluzione.
In Europa, viceversa, la Commissione ha adottato (e reiterato nella trasposizione di Basilea 3) l’approccio della taglia unica regolamentare. L’obiettivo sarebbe di evitare l’arbitraggio, ma – come si è indicato – si può argomentare l’opposto. Appare paradossale che il ruolo incisivo delle banche di prossimità per le piccole e medie imprese venga sottolineato e valorizzato negli Stati Uniti e di fatto disconosciuto in Europa. Il business model delle banche regionali ben gestite ha un vantaggio comparato nel finanziamento delle piccole/medie imprese locali, anche se inserite in filiere produttive di più ampio respiro. In particolare, il settore delle micro imprese è in Italia e in Europa quello più rilevante in termini di creazione (e di distruzione) di posti di lavoro, con caratteristiche di forte prociclicità.
I nessi tra piccole e medie banche e piccole e medie imprese sono stretti, con significativi effetti di retroazione che amplificano gli andamenti della congiuntura: sono le microimprese quelle che sperimentano le maggiori difficoltà nel finanziamento esterno, per le caratteristiche intrinsecamente meno trasparenti dei bilanci e per l’inevitabile intreccio con la situazione economico- finanziaria del proprietario/imprenditore. Comunque le piccole imprese devono muovere verso modelli non opachi, con maggior attenzione ai profili di redditività e di patrimonializzazione aziendale.
Occorre tuttavia evitare di “gettare il bimbo con l’acqua sporca”. Il modello unitario di regolazione delle banche adottato in Europa ha inciso negativamente sul flusso di credito alle piccole imprese e sulle economie locali. Come dimostra l’esperienza americana, non si tratta di argomenti di retroguardia, che devono cedere il passo a schemi di finanziamento più efficienti ed evoluti. Il sistema finanziario europeo è troppo bancocentrico e deve evolvere verso assetti in cui l’intermediazione di mercato svolga un ruolo molto più significativo. Anche per le piccole e medie imprese il ruolo del finanziamento bancario deve essere ridotto. Ma il processo deve essere graduale, richiede l’attivazione di idonei modelli di cartolarizzazione dei crediti, per i quali si è impegnata la Bce, non deve implicare oneri rilevanti per le economie locali e per le banche regionali.