Le pensioni (povere) che prenderemo
Antonio Castro – Libero
Chi riesce ad arrivare a fine mese con una pensione di 500 euro alzi la mano. La riforma del lavoro e l’annunciata imminente riapertura del cantiere pensioni (Poletti dicet), spalancano le porte ad un baratro di futura indigenza, come se la fase di crisi attuale già non bastasse. C’è solo da sperare che la stagnazione economica non si prolunghi ancora. E che l’economia italiana torni a crescere. Perché le nostre future pensioni sono aggrovigliate (per crescere) proprio all’andamento del Pil. Insomma, non basterà soltanto restare più a lungo al lavoro italiani con la riforma Fornero sfonderanno quota 68 anni), ma bisogna anche augurarsi che la ricchezza annuale prodotta dal Paese sia consistente e di riuscire a compiere una discreta carriera e un’altrettanta dignitosa crescita del reddito (e quindi dei contributi pensionistici connessi).
Il vero problema, forse, è che gli italiani oggi attivi sanno bene che non godranno di una pensione generosa come i padri. Ma non hanno la minima idea di quanto prenderanno, neppure a spanne. “Merito” certo della riforma Dini (1995), come pure dei “tagliandi” peggiorativi introdotti successivamente. Resta il fatto che gli italiani nella maggior parte dei casi ignorano quanto prenderanno quando andranno in pensione. Il “quando ” è agganciato alle aspettative medie di vita. Un complicato algoritmo matematico (aggiornato dall’Istat), stima quanto camperanno in più uomini e donne, domani, tra 10 anni, tra 20 o 30 anni. Ma, a legge invariata, un 30/40enne può serenamente ipotizzare di non potere staccare prima dei 67/68 anni.
Il problema, piuttosto, è intrecciare la scarsa crescita (e quindi la bassa rivalutazione dei contributi accumulati) con le carriere “canguro” (tanti contratti diversi, redditi e contributi modesti e, spesso, una scarsa continuità contributiva). Considerando anche che, con l’introduzione delle novità portate in dote dal Jobs Act (e prima ancora dei contratti flessibili), l’attuale carriera contributiva è fatta spesso di pochi contributi, lunghi periodi di inattività proprio nei primi 20 anni di accumulo. Un ventennio di accumulo fondamentale soprattutto con il sistema contributivo (che ha scalzato il retributivo), periodo che dovrebbe costituire le fondamenta del Castelletto previdenziale. Il rischio è che la bassa crescita porti fra qualche decennio – come ha stimato la società di pianificazione finanziaria Progetica per il supplemento CorriereEconomia di ieri – insieme alla mancanza di continuità nei versamenti a pensioni irrisorie, comunque non in grado di garantire una vecchiaia dignitosa.
La colpa non è solo dei sistemi di calcolo delle nostre pensioni (retributivo vs contributivo), e neppure della crisi, ma anche della scarsa chiarezza degli enti preposti e, in primo luogo, del governo. Da anni si parla della famosa «busta arancione», una sorta di proiezione pensionistica aggiornata che dovrebbe arrivare a cadenze fisse a tutti i lavoratori per renderli consapevoli di quanto accumulato, dei rendimenti maturati, e quindi della futura pensione che verrà percepita. La si promette da anni con ogni governo e qualsiasi maggioranza. Però, politicamente (ed elettoralmente), non è premiante far sapere a chi ha la fortuna di avere un lavoro oggi quanto (poco) prenderà di pensione domani.
Secondo la simulazione realizzata un 30enne con un reddito netto mensile di mille euro potrà contare su una pensione tra i 514 euro (se l’economia dovesse continuare a ristagnare) e di 600 euro al mese (sempre che il Pil torni a correre). Ancora peggio per il lavoratore autonomo (30enne con 1.000 euro al mese di reddito). Potrà contare su un assegno di appena 432 euro al mese. Non andranno meglio le cose neppure per i redditi più alti (2/3mila euro), addirittura più penalizzati. Tanto più che la famosa integrazione al minimo (per il 2014 è stato fissata a 501,38 euro) per chi andrà a riposo con il sistema contributivo non esisterà più. Con il retributivo lo Stato integrava la pensione di chi non aveva versato contributi a sufficienza. E per cui il reddito da pensione risultava inferiore ad un livello fissato dalla legge, considerato il «minimo vitale». Con il contributivo l’integrazione sparirà. Con il paradosso che chi oggi versa contributi per 30/35 anni, avrà un assegno inferiore al pensionato attuale «integrato al minimo».