Riforma pensioni: cosa c’è in cantiere
di Giuseppe Pennisi*
Come preconizzato sin dall’aprile scorso dal Centro Studi Impresa Lavoro in una tavola rotonda organizzata presso il CNEL, il Governo ha riaperto il cantiere sulle pensioni. L’Esecutivo sta pensando ad un mix di interventi da includere in settembre nel prossimo disegno di legge di stabilità per rendere più flessibile l’accesso alla pensione. Al centro resta l’ipotesi di una pensione a partire dai 62/63 anni con una penalità tra il 2 % ed il 3% per ogni anno di anticipo dell’uscita rispetto all’età della pensione di vecchiaia, cioè 66 anni e 7 mesi. Resta da comprendere il destino dei lavoratori precoci cioè coloro che vantano una lunga carriera contributiva: questi lavoratori chiedono un tetto a 41 anni di contributi per la pensione anticipata senza alcuna penalità sull’assegno.
Per i disoccupati il governo starebbe poi vagliando la possibilità di ritoccare la riforma degli ammortizzatori sociali, varata nel 2015 con l’obiettivo di prolungare di uno o due anni la copertura garantita oggi dalla Naspi, che dura al massimo 2 anni, per “accompagnare”, con una contribuzione figurativa, questi lavoratori alla pensione. Ciò consentirebbe di dare una risposta al superamento, dal 1° gennaio 2017, dell’indennità di mobilità e al gran numero di lavoratori disoccupati senior cioè con età superiori a 60 anni senza occupazione e senza più alcun sostegno al reddito.
Accanto a queste misure ci sarebbe un terzo canale di anticipo del pensionamento per i lavoratori coinvolti in processi di ristrutturazioni aziendali o per svecchiare la forza lavoro i cui oneri sarebbero, questa volta, posti a carico prevalentemente delle imprese con il coinvolgimento eventuale delle banche. Molte però le altre opzioni sul tavolo, compresa una revisione della normativa per i lavori usuranti, modifiche fiscali alla previdenza complementare per rendere più appetibile il ricorso all’assegno integrativo e, in particolare, sull’utilizzo del TFR che potrebbe essere destinato ad arricchire l’importo dell’assegno erogati proprio dai fondi complementari.
In questo contesto, due lavori analitici recenti possono essere utili alle riflessioni di Governo e Parlamento. Il primo è un duro attacco ai sistemi previdenziali su base retributiva ed a perimetri troppo ampi della spesa pubblica. Ne è autore Daniel Smyth del Johnson Center della Troj University ed è intitolato Breaking Bad: Public Pensions and the Loss of that Old-Time Fiscal Religion. La prima parte del lavoro non riguarda direttamente la previdenza ma l’economia keynesiana e la “tendenza ad accumulare debito pubblico ed a promuove sistemi previdenziali non sostenibili”. La seconda riguarda la poca trasparenza e le fuorvianti ipotesi attuariali dei sistemi previdenziali a benefici definiti “che hanno stimolato i legislatori a porre i costi delle pensioni sui contribuenti del futuro”. “Far transitare (come ha fatto l’Italia) le pensioni pubbliche da sistemi retributivi a sistemi contributivi può essere un passo verso la riduzione della sfera pubblica”.
Il secondo è un lavoro di tre docenti dell’Università di Padova: Marco Bertoni, Giorgio Brunello e Gianluca Mazzarella. Lo ha pubblicato il principale istituto Tedesco di economia del lavoro, l’IZA come Discussion Paper No. 9834. Il documento rafforza la tesi presentata il 5 aprile in questa rubrica sulla base di uno studio comparato della London School of Economics: ritardare, entro certi limiti, l’età della pensione, fa bene alla salute. Il lavoro analizza i cambiamenti dell’età minima per andare in pensione introdotti in Italia nel decennio 1990 -2000 e dimostra che gli italiani di genere maschile tra i 40 ed i 39 anni hanno risposto aumentando le attività fisiche, riducendo il fumo ed il consumo di alcolici ed adottando diete più salubri.
*Presidente del board scientifico del Centro Studi ImpresaLavoro