La sanità digitale cura meglio, ma l’Italia è fanalino di coda
di Paolo Viana – Avvenire
Prenotazione delle visite via web, informazione online sulle cure disponibili, trasmissione telematica delle ricette da medico a farmacista. Il digital divide non è un muro invalicabile solo per chi ha una certa età, ma rappresenta un problema per tutta la Sanità italiana: lo attesta il rapporto del Censis e di Impresa Lavoro sulla sanità digitale che e stato presentato ieri a Roma e che ci offre una poco rassicurante immagine della solita Italietta aggrappata alle scartoffie. Certo, tra non molto, si ridurrà la distanza che ci separa dai Paesi dell’Ue che investono di più in questo campo ma solo perché il Regno Unito, con il suo 4% (contro il nostro 1,2%) uscirà dalle statistiche comunitarie. Al contrario, investire nell’eHealth significa «rendere il cittadino fulcro dei processi di cura, offrendogli strumenti perché riesca a sumere un ruolo maggiormente attivo nella gestione della propria salute»: non siamo ancora alla centralità della persona che soffre, ma siamo già oltre l’approccio ragionieristico che usa falcidiare – indiscriminatamente – sprechi e diritti.
Siamo, però, ancora e solo ai buoni propositi: la realtà è invece quella che viene radiografata da questo rapporto, che vede la sanità italiana «ben al di sotto della media Ue» sia nella ricerca di informazioni online sui temi della salute da parte di cittadini (27° su 28 Paesi Ue + Islanda e Norvegia), sia nella prenotazione di visite mediche via web (12°, con il 10% contro il 36% della Spagna), sia nella percentuale di medici di famiglia che inviano attraverso la rete le prescrizioni ai farmacisti (17° con il 9% contro il 100% della Danimarca e il 99% della Croazia), sia, infine, nella condivisione delle informazioni tra medici e altri professionisti sanitari (su questo fronte siamo 14°). Se continueremo così, nel 2020 l’eHealth assorbirà solo l’1,36% del budget sanitario: si può raggiungere il 2% – limite più basso della media dei Paesi europei – solo investendo duemila milioni più di oggi, mentre per staccare il gruppo di coda l’investimento aggiuntivo dovrebbe superare i cinquemila; solo portandolo a 7.767 milioni, quindi con una spesa destinata alla sanità digitale di 15.243 milioni contro i 1.385 di oggi il ritardo sarebbe davvero colmato.
Censis e ImpresaLavoro sottolineano che un cambio di policy garantirebbe tra l’altro la riduzione delle prescrizioni e delle prestazioni non necessarie, una razionalizzazione delle spese e un miglioramento della stessa attività diagnostico-terapeutica: il Fascicolo Sanitario Elettronico e la Telemedicina permetterebbero di ottimizzare l’erogazione dei servizi e anche gli errori medici sarebbero meno frequenti. Si prevede anche un miglioramento nella gestione delle patologie croniche. Peraltro questo cambio di passo non può essere solo finanziario o infrastrutturale: secondo il rapporto, il vero “nodo” che strangola il sistema sanitario italiano è organizzativo e di governance – «la Sanità Digitale ha bisogno di svilupparsi ad un passo che la burocrazia non regge», scrivono Censis e ImpresaLavoro, spingendo implicitamente verso una rinazionalizzazione del sistema della salute – oltre che culturale, poiché non vi è investimento, si ammette, che non sia a rischio se non si riuscirà a garantire una vera partecipazione degli utenti al processo. E si torna al “solito” digital divide.