Sì ai giochi a Roma ma solo a tre condizioni
Davide Giacalone – Libero
Il motto di De Coubertain vale solo per gli atleti. Per chi organizza le olimpiadi l’importante è vincere. Impossibile se ci si abbandona alle due opposte suggestioni: a) sarà l’immagine dell’Italia e la campana della riscossa (l’ho già sentita, a proposito dell’Expo); b) sara l’orgia della corruzione e delle tangenti. La prima suggestione è il più sicuro viatico per l’inverarsi della seconda. Sebbene a fatica e controcorrente, la faccenda deve essere ricondotta su un piano razionale. Il primo punto da tenere presente è che questo genere di appuntamenti globali non sono un buon affare in sé. La settimana scorsa ero a Nanchino (Cina), per lavoro, il cui traffico pazzesco era stato ulteriormente sconvolto, per un paio d’anni, dalla preparazione delle olimpiadi giovanili, tenutesi nell’agosto scorso. Ho domandato: ci avete guadagnato? Risposta: ci abbiamo perso. Questo è il primo punto: se il conto economico si limita ai giochi è difficile vincere. La scommessa italiana non può essere sbandierata come certamente vittoriosa, ma neanche come sicuramente nefanda. Tutto sta ad avere le idee chiare e a trarre qualche insegnamento dai non pochi errori compiuti. Sono tre le questioni decisive.
1) Il prodotto da vendere non sono i giochi, ma l’Italia. Fin da subito, quindi, si deve togliere la gestione del turismo alle Regioni (responsabilità della sinistra e della folle riforma costituzionale) e capire che non è la Calabria che fa la concorrenza al Piemonte, ma l’Italia alla Spagna o alla Francia. Noi restiamo la prima meta scelta dai turisti che vengono da fuori l’Ue, siamo già un prodotto forte. Le olimpiadi hanno un senso se servono a mettere il turbo in un motore che, invece, perde quote nel mercato interno europeo. Ciò comporta anche un piano trasporti e un piano aeroportuale non concepiti per soddisfare le pulsioni municipali, ma coerenti con la necessità di rendere l’intera Italia raggiungibile da chi vi metta piede.
2) Una partita simile è meglio non cominciarla neanche se non si stabilisce prima chi comanda (e ne risponde). La scena dei terreni Expo, il conflitto fra l’acquisto o l’affitto, lo scornacchiarsi di Regione e Comune, sono la certezza dell’insuccesso. La tendenza italica è quella di darsi regole dissennate, salvo derogarle quando si deve fare qualche cosa. Non funziona e genera corruzione. Alle olimpiadi è lecito pensare solo se il meccanismo decisionale non verrà concepito come un’eccezione, ma come la regola. Nuova e per tutti. Nella regola deve essere compreso il fatto che chi gestisce all’inizio continua a farlo rispondendo del risultato, senza chiedere aumenti del budget. Ma non basta, deve essere diverso il rapporto con i privati, chiamati ai lavori e sanamente desiderosi di far profitto: entra chi offre le condizioni migliori e condivide il progetto. Non possono esserci revisioni prezzi in corso d’opera. Chi partecipa ai lavori garantisce patrimonialmente la loro realizzazione, alle condizioni pattuite. Le incompiute o gli insuccessi comportano la perdita del patrimonio messo a garanzia. Onori, ma anche oneri.
3) Sbagliato creare un’autoiità di garanzia. Peggio ancora una specie di commissario all’onestà. Solo dove la disonestà è l’unico sistema funzionante si adottano simili ricette. Anche in questo campo non si deve creare l’eccezione, ma adottare una regola razionale. E farla rispettare. Gli organi di garanzia giurisdizionale sono quelli esistenti (vanno riformati, ma è questione non affrontabile qui). Il di più deve consistere nel riprodurre il funzionamento dell’audit (controllo) utilizzato nei grandi gruppi e nelle multinazionali: verifica costante dell’allineamento fra preventivo e spesa, nonché dell’avanzamento lavori. Chi bara o rallenta paga, rimettendoci soldi. Sicché eviterà di farlo per arricchirsi. Se bara l’audit ne risponde, patrimonialmente e penalmente. Ci sono affari che riescono bene e altri che falliscono, dipende dalla capacità d’individuare prima quale è il valore che si vuole vendere e dalla serietà nell’esecuzione. Se si parte dal principio che tutti gli affari divengono malaffari si può essere certi solo del disfacimento.