Soltanto investire fa rima con ripartire
Guido Gentili – Il Sole 24 Ore
Un grande sistema economico che abbia subìto i danni di una lunga guerra e che abbia ritrovato occupazione e reddito rapidamente, senza aver fatto leva sugli investimenti, pubblici e privati, non si è mai visto. Il discorso può valere in generale per l’Europa, che al suo interno presenta casi diversi, diverse velocità di uscita dalla crisi e profondi divari innovativi, ma che comunque si ritrova nel complesso più che un passo indietro rispetto agli Stati Uniti. Di sicuro il problema investe l’Italia, che dentro di sé – nel Mezzogiorno – rintraccia i numeri di una catastrofe demografica e sociale e un orizzonte di abbandono non solo industriale.
Senza investimenti può esistere un presente che compra un po’ di tempo per la sopravvivenza giorno per giorno, ma non c’è futuro. Così la fiducia dei cittadini e delle imprese, entrambi contribuenti super tartassati, non corre e non si propaga. E se poi a tutto questo aggiungiamo (si veda l’inchiesta su Mafia Capitale) il carico delle evidenze che emergono in tema di corruzione e di pubblica amministrazione, nessuno può meravigliarsi se il Paese non dà segni visibili di ripresa.
È probabilmente questo il quadro che ha fatto (e fa) da sfondo al tentativo del governo Renzi di alzare la domanda interna con i famosi 80 euro in busta paga (rinnovati anche per il 2015), il taglio del fisco sul lavoro e la riforma del mercato del lavoro prevista dal Jobs Act. Una scommessa difficile mentre procede, sempre sul filo del rasoio, il confronto con l’Europa e in un’Europa dove rispuntano gli incubi del caso Grecia, e mentre la carta del “piano Juncker” da oltre 300 miliardi di investimenti (ma solo sulla carta, come sappiamo) a tutto fa pensare meno che a un jolly vincente. Certo il nuovo, possibile corso della politica monetaria espansiva della Bce firmata da Mario Draghi può darci una mano. Ma sarebbe un errore molto grave pensare che la svolta di Francoforte possa sostituirsi a una politica riformista e innovativa. Dove gli investimenti sono a questo punto una componente decisiva e non incidentale.
L’economista Jeffrey Sachs ha parlato di recente di «sciopero degli investimenti» (in particolare nel settore dell’energia sostenibile) negli Usa e in Europa e di come questa paralisi è stata interpretata dai neo-keynesiani e dai sostenitori dell’offerta. I primi finiscono per promuovere “espedienti” (tassi d’interesse zero e incentivi) invece di incoraggiare l’adozione di politiche ben definite e “liberare” gli investimenti pubblici e privati intelligenti. I secondi sono indifferenti alla dipendenza degli investimenti privati dagli investimenti pubblici complementari e auspicano una riduzione della spesa pubblica «pensando, ingenuamente, che il settore privato possa magicamente colmare le lacune, ma riducendo gli investimenti pubblici non fanno altro che ostacolare gli investimenti privati».
Dibattito intenso. Nella pratica l’Italia, oggi anche in nome di un pareggio di bilancio costituzionale che non prevede però tetti né per l’aumento delle tasse né per quello delle spese, ha fatto per anni e anni la scelta peggiore e più miope: giù gli investimenti pubblici strategici per il futuro del Paese, su le spese correnti e la pressione fiscale. E quanto alla “ricaduta” sugli investimenti privati, che questi, i privati, si arrangino (ma loro fanno anche assai di più, come dimostra il progetto per la Grande Milano degli industriali lombardi). In un quadro dove l’aumento dei costi burocratici e amministrativi si accompagna, nel rapporto con lo Stato e i suoi bracci operativi, a un assetto giuridico incerto, mobile e improntato alla più ampia discrezionalità anche sul terreno dei diritti proprietari.
Investimenti: una parola abusata, ricorrente all’infinito, che fatica però a ritrovarsi nei numeri che servono e soprattutto nei fatti. Non è una sorpresa, ma deve essere chiaro che senza questi non si esce dall’economia di guerra.