antonio rossitto

Colpo grosso in casa Renzi

Colpo grosso in casa Renzi

Antonio Rossitto – Panorama

Da malpagato co.co.co. a riverito manager. L’ascesa lavorativa di Matteo Renzi è stata fulminea come la sua scalata a Palazzo Chigi. E si è portata dietro uno di quei privilegi che, a parole, il presidente del Consiglio aborrisce: dieci anni di generosi contributi previdenziali ottenuti in virtù della sola appartenenza alla vituperata casta. Una storia poco commendevole già ricostruita nei mesi scorsi dal Fatto Quotidiano.

Si puo riassumere così: Renzi rimane un semplice collaboratore coordinato continuativo della Chil, l’azienda di famiglia, senza diritto a pensione né Tfr, fino al 24 ottobre 2003. Dopo tre giorni da disoccupato, viene riassunto dalla stessa società come dirigente. Ma l’azienda si caricherà solo per pochi mesi gli oneri di cotanto figlio. Perché lo scatto di carriera, guarda caso, avviene il 7 novembre 2003, alla vigilia dell’ufficializzazione, già ventilata dai giornali, della candidatura alla guida della Provincia di Firenze. La scontata elezione avviene sette mesi più tardi: il 13 giugno 2004. Da quel giorno, per cinque anni, l’amministrazione versa gli oneri pensionistici di quella promozione tanto tempestiva quanto inusuale. Eletto sindaco nel 2009, godrà dello stesso privilegio fino al febbraio 2014, quando diventa presidente del Consiglio. Solo due mesi dopo. il 22 maggio del 2014, pressato dai giornali, annuncia le sue dimissioni dalla Chil.

Per dieci anni, quindi, il premier è rimasto sul groppone di un sistema previdenziale che, rivela uno studio dell’Ocse appena pubblicato, pesa per quasi un terzo sul totale delle uscite dello Stato: la peggior percentuale tra i paesi industrializzati. Colpa anche dell’inesauribile arte di azzeccare i garbugli degli italiani. Tra cui si potrebbe annoverare anche quella del capo dell’esecutivo: a beneficiare del suo avanzamento professionale sotto stati infatti solo i versamenti pensionistici al premier. L’entità di questi oneri non è però stata mai definita. Le ripetute interrogazioni dei consiglieri dell’opposizione al Comune di Firenze hanno ricevuto solo risposte evasive. Stessa sorte per la richiesta promossa alla Camera dal Movimento 5 stelle.

Panorama è in grado di ricostruire i dettagli di un accorgimento che ha permesso a Renzi di mettere da parte, alle spalle del più scassato sistema previdenziale del pianeta, un tesoretto che un operaio si ritrova solo dopo vent’anni di lavoro in fabbrica. Quasi 200 mila euro accumulati grazie ad appena sette mesi da dirigente della Chil, l’azienda adesso al centro di un’inchiesta della Procura di Genova in cui è indagato per bancarotta fraudolenta Tiziano Renzi, padre del presidente del Consiglio. Le cifre di cui è entrato in possesso Panorama sono sorprendenti. Nella dichiarazione del redditi riferita al 2003, il premier dichiara appena 14.273 euro di imponibile Irpef. A cui si aggiungono 200 azioni privilegiate Fiat, un’Audi comprata l’anno prima e la proprietà di una panetteria di 78 metri quadrati a Rignano sull’Arno.

Nei primi dieci mesi di quell’anno, Renzi è un co.co.co. della Chil. Ma a fine ottobre viene assunto come manager: passa così a un contratto di circa 59 mila euro all’anno partendo da una retribuzione misera che Panorama è riuscito a calcolare sulla base degli oneri previdenziali corrisposti dalla provincia. Già, ma quanto misera? L’importo si può desumere sottraendo al reddito del 2003 (14.273 euro, appunto) la somma degli stipendi da manager di novembre e dicembre: 8.800 euro circa. Il risultato sarebbe di 5.500 euro. È questo, all’incirca, il compenso che Renzi riceve dalla Chil per i servigi resi da gennaio a ottobre: 550 euro al mese. A novembre però, da dirigente, lo stipendio del futuro presidente del Consiglio aumenta di nove volte: arriva a quasi 4.400 euro, contributi, tredicesima e quattordicesima inclusi. Tutte le cifre, calcolate da Panorama, potrebbero essere ancora più precise se il premier, in ossequio alla decantata trasparenza, fornisse i contratti di assunzione della Chil. Un atto reso ancora più necessario dai benefici ottenuti da Renzi: tutti a carico della collettività.

Di questa invidiabile ascesa, la società di famiglia si farà carico solo per sette mesi: fino a giugno del 2004. Poi a pagare è Pantalone. Una volta alla guida della provincia, sospeso lo stipendio, rimangono infatti da versare gli oneri contributivi: gravame che, per legge, pesa sull’ente in cui il politico è eletto. Nel caso di Renzi non si tratta di quisquilie. Il totale è di 20.184 euro all’anno: 7.416 per il fondo dei dirigenti, 5.259 per la pensione integrativa, 3.731 euro per il fondo sanitario e 3.778 euro versati direttamente alla Chil per il Tfr maturato. Cifra che va moltiplicata per il quinquennio in cui Renzi ha guidato l’amministrazione, fino a giugno del 2009. Per le casse provinciali, una spesa di 100.922 euro. A cui va aggiunta una cifra analoga, 98mila euro circa, per gli oneri accumulati da giugno 2009 a marzo 2014, durante il mandato da sindaco di Firenze. Il totale è ragguardevole: quasi 200 mila euro destinati alla serena vecchiaia del primo ministro. Soldi che, una volta raggiunta l’età pensionabile, potrebbero cumularsi a un sostanzioso vitalizio cui avrebbe diritto proseguendo l’attività politica. Unica consolazione per i contribuenti: a marzo del 2014, dopo la nomina a premier, Renzi annuncia le dimissioni dalla Chil.

Non è un magnanimo gesto di ravvedimento, ma l’epilogo di un anno di polemiche cominciate all’inizio del 2013. Quando il consigliere comunale di Fratelli d’Italia, Francesco Torselli, chiede chiarimenti all’allora primo cittadino di Firenze con un’interrogazione urgente. La stringata risposta dell’ex vicesindaco, Stefania Saccardi, arriva con una nota del 22 marzo 2003: «Il dottor Renzi ha avuto un contratto di collaborazione coordinata e continuativa fino al 24 ottobre del 2003 presso la Chil». Mentre «dal 27 2003 è stato come dirigente». Non soddisfatto, Torselli presenta un’altra richiesta: «Per sapere a quanto ammonta esattamente la cifra pagata dalla collettività, prima dalla provincia e ora dal comune per la pensione del sindaco». Sta qui infatti il busillis. Il vicesindaco Saccardi risponde due mesi dopo, il 31 maggio 2013. limitandosi però al parziale calcolo del solo Tfr: che corrisponde a una minima parte di quanto versato per la previdenza dal segretario del Pd. Nella replica all’interrogazione viene chiarito: «Il dottor Matteo Renzi è sempre stato assunto senza alcun tipo di interruzione ed è rientrato in azienda dal 22 al 24 giugno del 2009». Un altro escamotage per garantire continuità dei versamenti pubblici: sono infatti i giorni in cui scade il mandato alla provincia e comincia quello da sindaco. Ma nemmeno in quei tre giorni Renzi mette piede in azienda: «Ha usufruito di tre giorni di ferie» scrive Saccardi. Infine, all’ultimo punto della replica, l’ultima beffa: «Se al momento dell’assegnazione della carica, fosse stato occupato con un rapporto di co.co.co., il dottor Matteo Renzi non avrebbe avuto diritto ai contributi figurativi».

Ecco spiegato il motivo del balzo da co.co.co. a dirigente, prima di essere eletto alla provincia: escamotage che gli ha permesso di passare da una retribuzione di meno di 7mila euro all’anno a un contratto da circa 59mila euro, previdenza, tredicesima e quattordicesima inclusi. Maturando così quasi 200 mila euro di versamenti dal 2004 al 2014, pagati dai contribuenti invece che dall’azienda di famiglia, oltre che dieci anni di anzianità lavorativa. In cambio, dal momento della sua prima elezione, non ha messo piede nemmeno un giorno negli uffici della Chil. Alla società di famiglia è bastato pagare sette mesi di stipendio, circa 30 mila euro, perché lo Stato ne restituisse a Renzi più di sei volte tanto in oneri previdenziali. Come insegna la buona, vecchia, casta. Più facile da rottamare a parole che nei fatti.

Tasi, chi vince la gara a chi tartassa di più

Tasi, chi vince la gara a chi tartassa di più

Antonio Rossitto – Panorama

In tempi di renzismo dilagante, anche un balzo indietro di un solo anno appare un tuffo nel Mesozoico. Eppure agli italiani, per capire in quale gorgo ci hanno cacciato i nostri governanti, converrebbe tornare al 28 agosto 2013. «L’abolizione dell’Imu sulle prime case avverrà senza nuove tasse» esultava 1’allora premier, Enrico Letta. Il suo vice, Angelino Alfano, gongolava: «Missione compiuta!». Mai più balzelli, dunque. Un anno più tardi, salito Manco Renzi sulla sella di Palazzo Chigi, tutti sanno com’è finita. L’imposta municipale unica è rinata sotto le mentite spoglie della Tasi: formalmente un obolo da versare in relazione alle prestazioni offerte, nella pratica un nuovo salasso totalmente svincolato dai servigi resi dai Comuni.

Quest’anno, secondo le ultime stime dell’Ufficio studi di Confedilizia, i tributi sugli immobili garantiranno alle idrovore statali un gettito compreso tra i 25 ci 28 miliardi di euro. Più dei 23,7 incassati dal governo Monti nel 2012: l’anno nefasto in cui venne introdotta una sorta di patrimoniale sulla casa. L’Imu, dunque: la manovra «Salva Italia», all’articolo 13, dettagliava che la gabella sarebbe stata applicata «in via sperimentale». Ma in Italia, scriveva Ennio Flaiano, «nulla è più definitivo del provvisorio». Per cui, purtroppo, nessuna sorpresa: il 2014 sarà ricordato dai proprietari come il più vessatorio della storia. Tra la sempiterna Imu, che rimane viva e vegeta per le case di lusso e in affitto, e la novella Tasi. I dati elaborati in esclusiva per Panorama dagli esperti di Confedilizia non lasciano incertezze. Degli 80 (su 117) capoluoghi che hanno deliberato in materia, solo sei hanno scelto di applicare l’aliquota base dell’1 per mille. Ancora meno, appena due, hanno deciso di esentare i propri cittadini dal pagamento: Olbia e Ragusa. Al contrario, 58 città su 80 hanno fissato l’aliquota al massimo: 2,5 per mille. Di questi quasi la metà, ben 26, hanno addirittura approvato l’ulteriore maggiorazione dello 0,8 per cento, concessa a chi prevede qualche sgravio per le abitazioni principali, che fa arrivare l’aliquota complessiva al 3,3 per mille. È vero che i Comuni hanno tempo fino a giovedì 18 settembre per pubblicare le delibere approvate sul sito del ministero delle Finanze. Ma il quadro generale sembra ormai ben tratteggiato. E raffigura lo Stato che si prepara a tirare l’ennesimo manrovescio fiscale allo sgomento cittadino.

La prima simulazione del Centro studi di Confedilizia è stata elaborata per Panorama immaginando un contribuente senza figli. Chi vive in una prima casa di categoria A2, con 800 euro di rendita catastale, sarà stangato con 443 euro in 12 città: tra cui Ancona, Parma, Perugia,Salerno e Torino. Per lo sventurato, più in generale, solo in 31 capoluoghi su 80 è prevista qualche forma di detrazione, spesso risibile. Non è un caso. La Tasi, rispetto all’Imu, prevede una gamma di deduzioni ridotta. Quelle per le famiglie, per esempio. Lo dimostra il secondo conteggio di Confedilizia: stesso appartamento ma con due figli a carico. A Bologna il rincaro è del 40 per cento: da 237 a 333 euro. Mentre le deduzioni calano da 300 a 110 euro. A Firenze, amministrata da Renzi fino allo scorso febbraio e ora dal suo fedelissimo Nardella, la mazzata è simile: da 237 a 323 euro, con uno sgravio crollato da 300 a 120 euro. Batoste anche a Milano nonostante il sindaco, Giuliano Pisapia, assicuri che la Tasi non sarà più cara dell’Imu. Per Confedilizia è vero il contrario: il balzello in due anni è salito da 237 a 2% euro. E la riduzione fiscale precipitata da 300 a 40 euro. Ancora peggio, in molte città, va ai proprietari che affittano il proprio appartamento. A Roma, rivela ancora Confedilizia, una categoria A2, con una rendita di 787 euro, nel 2011 scuciva 578 euro di Ici, progenitrice dell’Imu. Quest’anno il totale sale a 1.508 euro: il 161 per cento in più. Analoga scoppola peri torinesi: da 578 a 1.402 euro. Un rialzo del 142 per cento.

La morale della favola è la meno edificante si possa immaginare: negli ultimi tre anni gli italiani hanno pagato almeno 78 miliardi di euro di tasse sul patrimonio immobiliare. Imposte che, ha scritto Luca Ricolfi su Panorama, hanno bloccato l’Italia: «Nel giro di un paio d’anni, il possesso di un immobile ha cambiato natura: lino a ieri era un elemento di sicurezza, oggi per molti è diventato un incubo, un fardello di cui ci si vorrebbe liberare prima possibile». Risultato: il prezzo delle case è crollato. E ha causato, calcola l’economista Paolo Savona, un impoverimento di 2 mila miliardi del patrimonio nazionale. «Nessuno dei nostri governanti, tutti guidati dalla “superbia satanica” di cui parlava Giulio Einaudi, ha tenuto conto dell’ovvio: tassare la ricchezza statica ha azzerato i consumi» spiega Corrado Sforza Fogliani, presidente di Confedilizia. «La casa era una riserva di liquidità veloce e sicura. Comprare un appartamento era la rendita sulla vita: qualsiasi accidente capitava, bastava vendere. Una sicurezza psicologica che permetteva di spendere buona parte di quanto si guadagnava. Adesso vale il contrario: avere una casa è un accidente. E l’Italia, di conseguenza, sta andando a catafascio». Ma al danno si aggiunge pure la beffa. Gli enti locali le stanno escogitando tutte per complicare l’esistenza ai cittadini. Delibere astruse, aliquote differenziate, sgravi incalcolabili. Il capolavoro l’hanno fatto a Ferrara. Dove la detrazione, illumina la delibera approvata all’uopo, «si ricava utilizzando la seguente formula: (€ 200 – (Rendita catastale x 0,117) + 5 Coefficiente 0,1176 determinato 1,05 x 160 x (0,4% – 0,33 %)». E giù una tonante pernacchia: l’ennesima per i malcapitati italiani.