Fisco di massa, servono i controlli non gli accertamenti
di Mino Rossi
Gli incassi veri, in proporzione, sono da guardare al microscopio. Dal 2000 al 2015 l’Agenzia delle Entrate ha consegnato a Equitalia addebiti da riscuotere, gravanti su famiglie e imprese, per la cifra monstre di 795 miliardi di euro.
Tuttavia, dopo contenziosi, cartelle, pignoramenti e notifiche, la riscossione ha fruttato, in sedici anni, incassi pari a 35 miliardi (praticamente, il 4,4 per cento). Sono questi i dati recentemente diramati dalla Corte dei Conti (Rendiconto generale dello Stato per il 2015 del 23 giugno 2016 – volume I pagina 30, Tavola 1.7 – vedi qui).
Inoltre, la quota del “magazzino insoluti” che Equitalia stessa valuta come non più riscuotibile – a causa di pignoramenti andati a vuoto, sgravi, fallimenti, ditte cessate, nullatenenti, eccetera – ad oggi è pari a 694 miliardi (cifra che in futuro potrà ulteriormente aumentare). Il dato risulta a tabella 3 allegata al testo della Audizione del 9 febbraio 2016 presso la Commissione Finanze del Senato dell’amministratore delegato di Equitalia (vedi qui). Una cifra pazzesca, quindi! Destinare al macero quasi il 90% del carico iniziale da riscuotere significa che tutta la macchina del contrasto è tutt’altro che affidabile e gira a vuoto.
Inoltre, stando alle intenzioni trapelate di recente, in Equitalia non ci sarà nessuno che certifichi l’inesistenza, fra i crediti inesigibili cestinati, di soggetti in realtà ricchi e possidenti. E questo, soprattutto di fronte a una cifra così ingente, sarebbe un fatto assolutamente inammissibile.
E’ indubbio, tuttavia, che questi numeri incredibili sono la spia di una gravissima crisi di funzionamento di un sistema che già da un pezzo è oltre la soglia del collasso.
Una delle principali anomalie che sono alla base di tutto questo, è nel fatto che la macchina di contrasto all’evasione di massa, anziché dedicarsi ai controlli, soprattutto negli ultimi lustri si è concentrata solo sugli accertamenti, la maggior parte dei quali basati su cifre ipotetiche, per legge calcolate presuntivamente.
I due concetti, però (accertamento e controllo), non sono la stessa cosa. Per funzionare, sono indispensabili entrambe le fasi: il controllo che è attività contestuale (che sorveglia e previene), e l’accertamento che invece è attività postuma (che punisce e reprime).
Quando si dice “l’Agenzia delle Entrate ha fatto 302mila controlli” (è questo il dato 2015), non è vero. Si tratta di 302mila accertamenti, eseguiti, al contrario, in assenza di qualunque controllo “in flagrante”. E, per questo, strutturalmente inficiati, nella maggior parte dei casi, da un inconveniente non da poco. E cioè di essere un tantino approssimativi nel quantum (trattandosi di accertamenti presuntivi).
Il Fisco italiano, inoltre, è l’unico in cui la macchina di contrasto è fuorviata dalla ossessione diffusa – purtroppo ingannevole e anche assai controproducente per le casse erariali – dei cosiddetti recuperi da evasione. Destinando però agli accertamenti il cento per cento delle risorse dedicate, esso dimentica che siamo in un sistema basato sull’autotassazione, per cui il suo compito primo è solo di fare controlli (non incassi).
Dal punto di vista di chi presiede alla governance, peraltro, si può dire che il controllo è “fatica” (con pochi poteri), mentre l’accertamento è “potere”, potere di presumere, quando il Fisco non è stato in grado di provare la cifra evasa (ciò che avviene nella maggior parte dei casi).
La metafora del calcio può aiutare. Per far funzionare questo sport servono sì le squalifiche in differita e a tavolino (fase della repressione). Ma, prima ancora di questo, serve in campo un arbitro che faccia l’arbitro (fase della prevenzione). In altre parole, serve una persona che corre e suda dietro il pallone e che fotografa da due passi i fatti di gioco (dove i margini di discrezionalità sono minimi). Per poi trasferire questa fotografia nelle mani di colui che, in presenza di fatti gravi oggettivamente provati – deciderà chi e come squalificare (avvalendosi solo a questo punto – ma in via eccezionale – di poteri discrezionali praticamente illimitati).
Nel Fisco italiano, invece, succede da sempre che la partita si gioca senza arbitro. Il controllore (l’Agenzia delle Entrate) o non c’è proprio (97% dei casi), oppure, quando c’è (3%), osserva la partita lontano dal campo di gioco (il riferimento è agli accertamenti emessi in differita di alcuni anni). Eppure, non è difficile rendersi conto che quando non c’è nessuno che sorveglia, le partite (quasi tutte le partite) non possono che finire in rissa.
Ecco perché si può dire, fuor di metafora, che in un sistema così architettato l’aumento della evasione di massa è garantito a vita, essendo esso la precondizione necessaria senza la quale un meccanismo così non può esistere.