Considerazione sulle elezioni americane dopo il voto in Iowa
di Pietro Masci*
I risultati delle c.d. Iowa Caucuses – molteplici assemble di cittadini registrati per votare i candidati alla Presidenza degli Stati Uniti – sono sorprendenti. Tuttavia, per avere una più precisa idea delle preferenze a livello nazionale, occorre, perlomeno, attendere il voto in New Hampshire (9 febbraio), i caucuses in Nevada (20 e 23 febbraio), le primarie in South Carolina (20 e 27 Febbraio) e soprattutto il c.d. SuperTuesday con le primarie in 15 stati (Primo di Marzo).
Tra i repubblicani, è sorprendente la vittoria di Cruz, con il 28%, ma forse ancora di più il terzo posto di Rubio (23%) a solo un punto percentuale da Trump (24%). Tra i democratici, è strabiliante che Clinton e Sanders siano terminati praticamente alla pari.
I risultati confermano che esiste una domanda di cambiamento rappresentata sopratutto da candidati all’opposto -Sanders e Trump – che insieme costituirebbero di gran lunga la maggioranza assoluta. A differenza di altri paesi, dove i politici al potere cercano di evitare il voto quando forze considerate fuori dal sistema possono vincere – gli Stati Uniti sono più disponibili al cambio e alle novità; alla resa dei conti, le soluzioni pilotate debbono misurarsi con la partecipazione e la decisione dei cittadini. I candidati ed i rappresentanti in genere non emergono solo per una scelta dall’alto e non vengono eletti da altri apparati. Credo che questi siano importanti principi democratici che portano, alla lunga, ad esiti favorevoli.
La richiesta di cambiamento deriva dalla circostanza che negli Stati Uniti sta decelerando la forza propulsiva di una società basata sulle opportunità. Nel corso del tempo, le opportunità hanno creato posizioni di rendita che però ora favoriscono la conservazione e negano di fatto il principio delle opportunità sempre dichiarato. Si rafforzano gli interessi al potere e le c.d. lobbies. Gli esempi sono molti, tra questi alcuni dei più importanti interessi: attorno alle armi e al complesso militare e industriale; alle istituzioni finanziarie e Wall Street. Questi interessi costituiscono un potere finanziario sproporzionato capace d’influenzare i risultati politici con contribuzioni illimitate e anonime (la famosa decisione Citizens United della Suprema Corte che, appunto, permette contributi illimitati e anonimi ai candidati). Inoltre, il sistema educativo, che dovrebbe essere alla base di una società delle opportunità, comporta dei costi esorbitanti che riducono l’accesso all’istruzione.
Il cambiamento richiesto non si dirige verso Rand Paul – candidato repubblicano che ha appena abbandonato la corsa alla Presidenza – che propone una società libertaria, economia di libero mercato con minimo intervento dello Stato. Si tratta di un’impostazione in linea con la tradizione Americana, ma che ha pochi riscontri concreti, non stimola l’immaginazione e viene considerata troppo intelletuale.
Gli elettori si rivolgono, invece, verso candidati che hanno maggiore capacità comunicativa e presentano proposte che hanno un impatto tangibile più immediato e contenuti meno astratti. Al di là degli aspetti teatrali, le differenze sostanziali tra i candidati di ciascun partito non sono molto significative.
Tra i democratici, Sanders offre una chiara visione sul futuro della società americana; punta sopratutto sui temi delle disuguaglianze, della concentrazione della ricchezza, e del ruolo del denaro nella politica che non permettono la realizzazione di una società delle opportunità per tutti. Clinton – che diversamente da Sanders ha votato a favore della guerra in Iraq – si dice una pragmatica capace di “fare in modo che le cose vengano fatte”; ha sposato molti dei temi di Sanders, in forma più moderata e più gradualista – e aggiungo – con minore attrazione per coloro (e non sono pochi) che non ripongono la loro fiducia in Clinton.
I repubblicani sono abbastanza uniti su vari temi: difesa del sogno Americano di una società dove la libertà è sovrana e un economia regolata dal mercato; lotta al terrorismo; politica estera diretta ispirata agli interessi e alla sicurezza nazionale; controllo dell’emigrazione (con gli eccessi di Trump che propone di costruire un muro lungo la frontiera con il Messico, il quarto più importante partner commerciale degli Stati Uniti e parte del sistema Nafta, accordo di libero commercio tra Stati Uniti, Canada e Messico); aumento delle spese militari; possesso delle armi; avversione alla riforma della sanità e in genere alle politiche del Presidente Obama. Peraltro, Trump critica apertamente le guerre di George W. Bush e le decisioni militari del duo Obama-Clinton e il ruolo del denaro nella politica. Questi temi non sono raccolti da Cruz e Rubio, i candidati – anche dopo il dibattito tra repubblicani del 6 febbraio – che sono, insieme a Trump, i più accreditati alla designazione per le elezioni presidenziali dell’8 novembre 2016.
Tuttavia, in queste come in altre campagne elettorali per la Presidenza, è assente una variabile fondamentale: il Congresso con il quale bisogna fare i conti per introdurre la legislazione che i vari candidati presidenziali propongono.
Le elezioni del 2016 presentano tre aspetti senza precedenti.
Per la prima volta ci sono addirittura due “latinos” – Cruz e Rubio – tra i maggiori contendenti alla designazione repubblicana (senza contare Jeb Bush che parla correntemente lo spagnolo ed è sposato a una messicana, Columba Garnica de Gallo). Anche se occorre fare qualche distinguo sulla percepita latinità di Cruz e Rubio – entrambi giovani senatori di origini cubane, ma con impostazioni diverse particolarmente per quanto riguarda il tema dell’immigrazione – le loro candidature riflettono la circostanza che i “latinos” negli Stati Uniti sono oltre 50 milioni (di cui probabilmente 7-8 milioni sono illegali) e costituiscono la più numerosa minoranza che – molto di più di altre minoranze – mantiene la lingua e le relazioni con i paesi di origine. In effetti, lo spagnolo negli Stati Uniti è molto diffuso e viene normalmente utilizzato insieme all’inglese.
Il secondo aspetto è che Bernie Sanders – un settantacinquenne che ha il sostegno dei giovani e non riceve sostegni finanziari da parte di interessi precostituiti, ma piccoli contributi da oltre 3 milioni di cittadini – conduce la sua campagna elettorale – finora con successo – proclamando apertamente di essere socialista e di volere una rivoluzione politica. Queste affermazioni 10-20 anni fa avrebbero squalificato qualsiasi candidato da ogni dibattito ed elezione e gli avrebbero alienato gran parte dell’elettorato. Negli anni ’70, l’allora candidato democratico McGovern – secondo una ricostruzione cinematografica di Oliver Stone – fu sconfitto da Nixon nella campagna presidenziale del 1972, non solo grazie alle irregolarità del Watergate, ma anche perché, in piena Guerra Fredda, gli fu affibiata l’etichetta di socialista omosessuale.
Il terzo aspetto riguarda l’età. Alcuni tra i maggiori candidati alla Presidenza – Clinton, Trump e Sanders – hanno rispettivamente 68, 70 e 75 anni e dimostrano grande vitalità fisica e intellettuale, come i vari dibattiti, incluso quello tra Sanders e Clinton del 4 febbraio, ampiamente dimostrano. In aggiunta alla circostanza che uno dei maggiori candidati – Clinton – è per la prima volta una donna (c’e’ anche un’altra donna nel campo repubblicano, Carly Fiorina che non raccoglie molti sostegni), non è mai accaduto che ci fossero tanti anziani e credibili candidati alla Presidenza.
Il significativo ruolo dei “latinos”, l’accettazione dei termini socialista e rivoluzione, la preponderanza di candidati anziani e la presenza femminile evidenziano la dinamica della società americana e quanto sia cambiata e stia cambiando. A proposito di cambiamento, mi sembra significativo riportare una battuta. È stato chiesto a un giovane della generazione Millennium chi è un socialista. La risposta è stata che socialista è qualcuno che usa i social media!!!
In questa spinta verso il cambiamento, tuttavia, un tema di fondo delle elezioni presidenziali riguarda il trattamento degli immigrati e dei rifugiati e in che misura gli americani – impauriti dal terrorismo, scossi dalla crisi economica e finanziaria e non rassicurati dai politici – vorranno confermare la natura multietnica ed aperta della società americana.
La corsa alla Presidenza è lunga, apertissima e affascinante; si preannuncia piena di colpi di scena; e costituisce un momento davvero critico per la definizione di chi desiderano essere gli americani.
*Esperto di politiche pubbliche, residente negli Stati Uniti; docente Istituto Studi Europei, Roma