Investimenti fuori dal deficit per 3,5 miliardi nel 2015
Giuseppe Chiellino – Il Sole 24 Ore
Le nuove linee guida della Commissione europea sulla disciplina di bilancio che dovrebbero rendere più flessibile la governance economica e spingere l’Europa verso la ripresa, per l’Italia contengono una notizia buona e una meno buona. La prima è che per beneficiare della cosiddetta “clausola degli investimenti” non sarà più necessario rispettare la regola di riduzione del debito pubblico. E questo è decisamente un passo avanti. Resta però l’altro vincolo, ed ecco la notizia meno positiva , rappresentato dal limite del 3% del rapporto deficit/pil. In parole povere, gli Stati membri potranno escludere dal computo del deficit gli investimenti realizzati per cofinanziare progetti europei dei fondi strutturali o dei programmi Connecting Europe, TEN, disoccupazione giovanile e del nuovo fondo EFSI. Questo però non significa che sarà consentito sforare il fatidico tetto del 3%. Sarà tollerato soltanto un «temporaneo scostamento» dall’obiettivo a medio termine del pareggio di bilancio.
Quanto vale, allora, per l’Italia la decisione presa ieri a Strasburgo e dibattuta dai tempi del governo Monti, al netto dei futuri- e per ora ipotetici – investimenti nazionali al fondo EFSI? Secondo le stime della banca dati della Commissione, per il 2015 l’importo complessivo di cofinanziamento già previsto nei programmi è pari a poco più di 3,5 miliardi di euro, quasi tutti per la programmazione 2007-2013. Solo pochi spiccioli (11 milioni) riguardano il periodo 2014-2020 di cui nei prossimi giorni Bruxelles dovrebbe approvare una dozzina di programmi italiani. In percentuale sul Pil stiamo parlando dello 0,2 per cento. In valore assoluto è di gran lunga la cifra più importante tra i 28 paesi dell’Unione che in totale quest’anno cofinanzieranno progetti europei per 13,8 miliardi. Al secondo posto c’è la Francia con meno di 1,8 miliardi, seguita dalla Spagna (1,4 miliardi), dal Regno Unito (1,1 miliardi) e dalla Germania, appena sotto il miliardo e poco sopra la Polonia, primo paese beneficiario dei fondi strutturali europei che però ha dimostrato finora di saper spcndere bene. Per gli anni a venire le cifre varieranno parecchio. Fino al 2020, la nuova programmazione prevede per l’Italia 39 miliardi di cofinanziamento ma è prevedibile che le risorse si concentreranno nella seconda parte dei 7 anni di programmazione. L’applicabilità delle nuove linee guida sarà tutta da veríficare. Per l’Italia molto dipenderà dalla capacità di regioni e ministeri di spendere le risorse disponibili, pari solo per quest’anno ai 3,6miliardi di euro (si veda il Sole 24 Ore del 9 gennaio).
Da queste valutazioni emerge un paradosso. Stando alle cifre, infatti, l’Italia potrebbe essere il principale beneficiario del nuovo corso che sta assumendo la disciplina di bilancio comunitario. Ma solo per demerito proprio e per i ritardi accumulati negli anni scorsi. Quei 3 miliardi e mezzo, infatti, fanno parte dei 13,6 miliardi che restano ancora da spendere e che, come ha ricordato il sottosegretario Graziano Delrio a questo giornale, devono essere necessariamente spesi entro la fine dell’anno, pena il disimpegno automatico della consistente quota comunitaria.
Il cammino quindi non è tutto in discesa. E non solo per le difficoltà tutte italiane di utilizzare le risorse comunitarie. La decisione di ieri della Commissione, infatti, è un passo importante e cercato da tempo dall’Italia, ma per beneficiare della “nuova” clausola degli investimenti è necessario che i conti pubblici superino il nuovo”esame” comunitario, fissato a marzo, quando Bruxelles dovrà valutare la legge di stabilità nella versione definitiva e soprattutto l’attuazione delle riforme strutturali. La Commissione dovrà decidere se è necessario proporre al Consiglio europeo l’apertura di una procedura contro l’Italia per il mancato rispetto della regola di riduzione del debito. Se ciò dovesse accadere l’Italia si ritroverebbe nel cosiddetto “braccio correttivo” del Patto di stabilità e di crescita, perdendo così il diritto di scorporare il cofinanziamento degli investimenti dal deficit. Per ora però il bicchiere è mezzo pieno.