paul graham

Diseguaglianza economica: un’apologia

Diseguaglianza economica: un’apologia

di Andrea Mancia e Simone Bressan

Qualcuno lo chiama il “Re filosofo della Silicon Valley”. Per qualcun altro è semplicemente l’ennesimo capitalista diventato ricco alle spalle dei meno fortunati. Comunque la si pensi, però, è davvero difficile restare indifferenti nei confronti di Paul Graham, della sua storia e delle sue idee. Lui – nella biografia del proprio sito personale (un classico esempio di Internet 1.0: molta sostanza e grafica iper-vintage) – si definisce programmatore, scrittore e investitore. E in effetti la cronologia della sua vita professionale si sviluppa proprio in quest’ordine. Graham nasce come “coder” esperto in Common Lisp: una derivazione moderna del linguaggio di programmazione inventato alla fine degli Anni Cinquanta da John McCarthy (uno dei padri dell’Intelligenza Artificiale) al Massachusetts Institute of Technology (MIT). E proprio alle tecniche di programmazione sono dedicati i suoi primi libri, scritti nei primi Anni Novanta.

Laureato in “computer science” ad Harvard (prima di studiare pittura all’Accademia delle Belle Arti di Firenze), Graham affianca quasi subito, alla passione per i linguaggi di programmazione, l’arte e la scrittura, anche uno spiccato senso imprenditoriale. Nel 1995, insieme a Robert Morris, fonda Viaweb, una delle prime compagnie che prova ad immaginare il software come un servizio, piuttosto che un prodotto da vendere sugli scaffali di un negozio specializzato. Con Viaweb, qualsiasi utente – anche con scarse conoscenze informatiche – può creare e gestire, direttamente sul web, un proprio sito di e-commerce. Nel 1998 Viaweb viene acquistata da Yahoo (dove diventerà Yahoo Store) per la cifra di 50 milioni di dollari. E Graham decide di investire la propria neonata fortuna investendo nelle start-up più promettenti della Silicon Valley. La cosa funziona: nel 2005, insieme a Robert Morris, Jessica Livingston e Trevor Blackwell, fonda “Y Combinator”, un incubatore di start-up che in dieci anni ha già finanziato più di 800 aziende nate da zero, tra cui Dropbox, Airbnb, Stripe e Reddit.

La figura di Graham, finora conosciuta soprattutto tra gli addetti ai lavori della Silicon Valley, è improvvisamente diventata di dominio pubblico all’inizio di quest’anno. Tutta “colpa” di un lungo saggio pubblicato su www.paulgraham.com, dal titolo apparentemente innocuo (“Economic Inequality”: diseguaglianza economica), che ha scatenato una vera e propria bufera digitale negli Stati Uniti, con migliaia di tweet e interventi sui social media che si sono rincorsi per giorni. La tesi del fondatore di “Y Combinator”, nonostante la reazione indignata dei social justice warriors di professione, è piuttosto semplice (tanto che, per evitare ulteriori fraintendimenti, Graham ne ha pubblicato anche una versione ridotta all’osso).

La diseguaglianza economica – sostiene Graham – non è un male in sé, perché le sue radici sono multiple: alcune buone e alcune cattive. Può essere causata dall’evasione fiscale o dal razzismo. E questo è male. Ma può anche essere causata dalla moltiplicazione delle start-up di successo. E questo è bene.

La diseguaglianza economica, insomma, non è affatto un sinonimo di problemi reali come la povertà o l’assenza di mobilità sociale, ma casomai una delle conseguenze di questi problemi. Ma se è la diseguaglianza in sé a diventare il nemico da abbattere, nessuno ci assicura che grazie alla sua scomparsa riusciremo a risolvere i problemi reali che ci stanno a cuore. «Proviamo a combattere la povertà – scrive Graham – e se necessario non esitiamo a danneggiare la ricchezza. È molto meno sensato, invece, combattere la ricchezza sperando in qualche modo di risolvere il problema della povertà».

L’errore logico centrale dei fautori della “giustizia sociale ad ogni costo” è rappresentato, secondo Graham, da quella che lui definisce “pie fallacy” (si potrebbe tradurre in qualcosa di simile a “l’errata credenza della torta”). Si tratta della convinzione che l’unico modo per arricchirsi sia quello di sottrarre risorse a chi ne ha di meno, che l’unico modo per mangiare più fette di torta sia quello di sottrarre fette di torta a qualcun altro.

«Il problema – scrive Graham – è che siamo cresciuti in un mondo in cui la pie fallacy è effettivamente reale. In famiglia, da bambini, la ricchezza è davvero una torta dalle dimensioni fisse: quando qualcuno ottiene qualcosa in più è sempre a spese di qualcun altro. Serve uno sforzo mentale non indifferente per ricordare a se stessi che il mondo reale non funziona in queso modo. Nel mondo reale si può creare ricchezza in molti modi, non solo togliendola ad altri. Un falegname crea ricchezza: ci costruisce una sedia e noi gli diamo volontariamente soldi in cambio della sua creazione. Al contrario, un high-frequency trader non crea ricchezza, visto che guadagna un dollaro solo quando qualcuno, dall’altra parte dello scambio, perde un dollaro. Se le persone, in una società, diventano ricche togliendo solo denaro ai poveri, allora abbiamo un caso di diseguaglianza economica degenerata, in cui le cause della povertà sono le stesse cause della ricchezza. Ma se un falegname costruisce cinque sedie e un altro falegname ne costruisce una sola, il secondo sarà meno ricco del primo, ma non certo perché il primo gli abbia sottratto alcunché».

La ricchezza di una società, insomma, non è un gioco a somma zero. E in un mercato libero, molti diventano ricchi senza togliere niente a nessun altro. Anzi, diventano ricchi creando ricchezza. E il progresso tecnologico degli ultimi decenni ha moltiplicato e accelerato questa dinamica.

«Negli anni Sessanta, quando la diseguaglianza economica era più bassa – spiega Graham – quello che oggi sarebbe un potenziale creatore di una start-up aveva solo due strade davanti a sé: farsi assumere da una grande azienda o insegnare in un’università. Prima di lanciare Facebook, Mark Zuckerberg era convinto che sarebbe finito a lavorare per Microsoft. La vera ragione per cui lui, insieme ad altri fondatori di start-up, è finito per diventare molto più ricco di quanto non sarebbe potuto esserlo verso la metà dello scorso secolo, non è per qualche oscura macchinazione organizzata durante l’Amministrazione Reagan, ma perché il progresso della tecnologia ha reso molto più semplice creare nuove aziende in grado di crescere rapidamente».

O si vieta del tutto la possibilità alle persone di inseguire il sogno della ricchezza, insomma, oppure bisogna rassegnarsi a fare i conti con una diseguaglianza economica crescente,

«Io credo – conclude Graham – che la crescente diseguaglianza economica sia il destino inevitabile di nazioni che hanno scelto di non diventare qualcosa di nettamente peggiore. E quanto ascolto le persone parlare di quanto la disuguaglianza economica sia un fatto negativo e di come si dovrebbe cercare di ridurla, mi sento come un animale selvatico che sta origliando una conversazione tra cacciatori. (…) Ma su questo punto bisogna essere perfettamente chiari. Eliminare le grandi variazioni di ricchezza significa eliminare del tutto la possibilità che nascano nuove start-up. Siete sicuri, cacciatori, di voler davvero sparare a questo strano animale? Tra l’altro, potreste soltanto limitarvi ad eliminare le start-up nel vostro paese. Le persone sono già abituate a spostarsi in giro per il mondo allo scopo di migliorare la propria vita professionale. E qualsiasi start-up può ormai operare in qualsiasi parte del pianeta. Così, anche se riusciste a rendere impossibile la creazione di ricchezza nel vostro paese, l’unico risultato sarebbe quello di costringere le persone ambiziose ad andarsene per inseguire i propri sogni altrove. Il che vi garantirebbe senz’altro un Coefficiente di Gini più basso, ma anche una lezione sulla necessità di essere estremamente cauti quando si desidera qualcosa».

Diseguaglianza economica: una critica

Diseguaglianza economica: una critica

di Paolo Ermano

Di getto, appena letto l’articolo di Bressan e Mancia, mi sono chiesto come mai un soggetto descritto come il “Re filosofo della Silicon Valley” parlasse di diseguaglianza in un modo così naïf. Maliziosamente ho pensato che per uno come Graham sostenere che la diseguaglianza è un bene equivale a rigettare ogni progetto di politiche di redistribuzione, una presa di posizione contro ogni disegno di aumento delle tasse per chi, come lui, non può certo definirsi povero. Peraltro l’appellativo di “Re” non fa ben sperare sulle sue buone intenzioni iniziali rispetto al tema.

Tuttavia, volendo dar credito alla visione di Graham, e leggendo per intero il contributo presente sul suo sito, si scopre come questo guru, dietro il discorso sulla diseguaglianza, cela una visione semplificata delle relazioni economiche: chi ha meritato di guadagnare soldi perché ha prodotto, inventato, creato beni o servizi di successo è giusto che sia più ricco di chi non ha realizzato nulla.

Questa tesi però non dice nulla sulla diseguaglianza: non ne indaga le ragioni intrinseche; non indaga i motivi per cui possa essere accettabile un certo livello di diseguaglianza; non discute o problematizza gli effetti della diseguaglianza sulla società; infine lascia poco margine nel comprendere le cause del successo di una persona, quanto dipendano dal merito e quanto dalle circostanze.

Per quanto riguarda le ragioni intrinseche, è il caso di ricordare che la diseguaglianza economica (una delle diverse forme di diseguaglianza presenti nelle nostre società) è un concetto che tocca sia la dimensione quantitativa che la dimensione temporale: Graham discute della prima dimensione, confondendo peraltro le dinamiche macro e microeconomiche, dimenticando la dimensione temporale. Infatti, nel parlare della diseguaglianza confonde la dimensione macro con la dimensione micro. Alla prima che permette di comprendere e discutere come alcuni accumulino risorse a scapito di altri grazie, ad esempio, alla presenza di rendite di monopolio, elusione fiscale, o pressioni corporative, Graham vi contrappone la visione microeconomica che si limita a dire che chi produce di più di altri diventa più ricco. Ma se è vero che secondo una visione microeconomico si può giungere a quella che Graham chiama pie fallacy, cioé il fatto che la torta da spartire cresce con la crescita economica, quindi il mio consumo può essere indipendente dal tuo, è da un punto di vista macroeconomica la tesi di Graham non porta in alcun modo a comprendere l’altra faccia del problema: il meccanismo di trickle down ovvero le modalità attraverso cui l’aumento della dimensione della torta porta un beneficio all’intera comunità. Perché se la torta aumenta ma è sempre uno e uno solo a prendersi la parte in più, siamo punto e a capo.

E per comprendere come dalla visione micro si passi alla visione macro serve il tempo, ovvero la dinamica. Un bravo artigiano ha successo, guadagna molto e quindi assume uno o più disoccupati, riducendo così attraverso meccanismi di mercato la diseguaglianza, e partecipa a programmi più o meno sofisticati di redistribuzione delle risorse attraverso gli obblighi fiscali. Dimenticare questa dinamica, fatta di Stato e mercato, non permette a Graham di sostenere adeguatamente la pie fallacy.

Poi c’è la questione di quanta diseguaglianza sia accettabile. Al di là dei problemi filosofici brillantemente discussi nel secolo scorso da J. Rawls prima e da A. Sen poi, oramai la letteratura scientifica sui problemi conseguenti ad un eccesso di diseguaglianza è ampia e consolidata: dai problemi di rigidità sociale, alle patologie sociali e sanitarie, al basso tasso di crescita economica, sono molti gli effetti e i meccanismi attraverso cui la diseguaglianza impatta negativamente su una comunità. Semplificando, possiamo dire che un livello basso di diseguaglianza offre gli stimoli per eccellere; un livello eccessivo di diseguaglianza, invece, può sigillare la società perché chi è ricco non vorrà creare le condizioni per mettere in discussione la sua ricchezza, il suo status. E nell’America che si appresta al voto, i probabili candidati saranno un miliardario figlio di un miliardario e la moglie dell’ex-presidente degli USA: non proprio un’immagine di mobilità sociale dopo quella strepitosa icona che è Obama.

Ho già accennato, senza approfondirli, all’esistenza di diversi motivi per cui un’eccessiva diseguaglianza è dannosa. Ripeto, la letteratura è già ricca: la si può prendere sul serio o ignorarla come fa Graham. Ma sulla falsariga delle argomentazioni di Graham c’è un altro molto più sottile che già Stuart Mill metteva in luce: un eccesso di diseguaglianza limita la libertà delle persone poiché non permette a chi vuole investire il proprio tempo e il proprio talento in attività poco remunerate di dedicarvisi. Partiamo dall’esempio offerto da Graham quando parla di Zuckerberg: ricorda il “Re filosofo della Silicon Valley” che il fondatore di Facebook pensava sarebbe finito a lavorare presso la Microsoft. Zuckerberg, figlio di un dentista e di una psichiatra, iscritto a Harvard, se fosse finito a lavorare alla Microsoft, stipendio medio a Seattle $110.000, forse non sarebbe stato così famoso, ma certamente non avrebbe patito la fame: seguiva un percorso di programmatore informatico negli anni 2000, competenze che da almeno un paio di decadi erano al centro del mercato del lavoro. La scelta di formarsi e specializzarsi in un settore in ascesa ha dato a Zuckerberg più opportunità di avere successo. Se si fosse innamorato di archeologia maliana o di fauna marina del Mediterraneo, per esempio, forse avrebbe avuto le sue difficoltà a trovare lavoro. Stuart Mill, allo stesso modo, rivendicava l’importanza di avere una società che nel difendere la libertà dell’individuo ne difendesse anche le sue inclinazioni, qualunque esse fossero nel rispetto degli altri. La concentrazione della ricchezza in poche soggetti operanti in specifici settori limita l’apertura verso un insieme più ampio di possibilità che potrebbero rivelarsi altrettanto importanti rispetto all’invenzione di un social-network. Infatti, se è necessario competere continuamente per il successo economico, è molto più utile concentrarsi nei settori più remunerativi, quelli che da anni forniscono la lista dei più ricchi: fra tutti, finanza e informatica. Ma siamo sicuri che questo sia il modo migliore per far crescere una società ricca e libera?

Infine c’è un altro punto da discutere: restando all’esempio di Graham, il benessere di Zuckerberg era già scritto nella sua origine, nella scuola che frequentava. Il successo, forse, è stato casuale. Certamente il giovane informatico aveva le competenze per creare Facebook, ma sarebbe bastato poco per non trovarsi nel posto giusto al momento giusto: ora staremo a parlare di un’altra persona, non di Zuckerberg. Ma certamente, e questo è un punto essenziale, Zuckerberg non sarebbe finito povero.

Si stima che il luogo di nascita spieghi il 60% della variabilità dei redditi a livello globale. Se al luogo di nascita inseriamo una variabile che definisca lo status dei genitori, quella percentuale sale all’80%. Dov’è il merito, nel restante 20%? Neanche lì, per certi versi: infatti, se nell’analisi dei redditi inseriamo genere, età e colore della pelle, infatti, riduciamo ancora l’incidenza del merito. Parafrasando un famoso proverbio: chi ben nasce è ben oltre la metà dell’opera. Ad esempio, nell’America della retorica del self-made-man se sei bianco, maschio e figlio di benestanti è più facile impegnarsi e ottenere risultati rispetto ad una femmina, nera e vieni dai sobborghi di una metropoli. Facciamoci caso: la maggior parte delle storie di successo delle Silicon Valley è fatta di bianchi, maschi, provenienti da famiglie benestanti. È questa la diseguaglianza motore del mondo che celebra il bianco, maschio e benestante Graham?