Perché il pubblico impiego fa da ammortizzatore sociale e da freno all’Italia
di Renzo Rosati – Il Foglio
In Calabria oltre un occupato su cinque – il 22,03 per cento – è pubblico, cioè retribuito con denaro dei contribuenti. Appena sotto Val d’Aosta (21,01), Sicilia (19,95), Sardegna (19,3), Molise (18,06), Campania (17,89), Basilicata (17,89), Puglia (17,48). L’intero Mezzogiorno, più la Val d’Aosta, ha come maggior datore di lavoro Stato ed enti locali: sei punti più della media nazionale (13,9 per cento), il doppio di regioni Lombardia, Veneto e Piemonte. Sono le cifre di un rapporto, su dati Istat e della Ragioneria dello stato, di ImpresaLavoro, centro studi indipendente che analizza l”influenza sull’economia delle dinamiche del lavoro.
Rispetto a queste statistiche i sindacati e la sinistra ribattono sempre che gli impiegati pubblici in Italia non sono più numerosi che altrove, come pure la spesa in rapporto al pil. Né che le loro paghe superino quelle private. Davvero? In rapporto alla popolazione la media italiana è effettivamente del 5,18 per cento, rispetto all’8,5 della Francia, al 7,9 del Regno Unito, al 6,4 della Spagna, al 5,7 della Germania. Egualmente per pagare i 3,142 milioni di pubblici dipendenti si sono spesi 163 miliardi nel 2015, poco più del 10 per cento della ricchezza prodotta, in linea con Francia e Regno Unito, meno di Francia e Svezia. Mentre le retribuzioni in media sono state 34,300 euro lordi rispetto 32,300 dei privati, e in vent’anni sono aumentate del 70,8 per cento contro il 58,9 nel privato.
Ma queste cifre non dicono molto se non si raffrontano ad almeno due altri dati di fatto. Il primo è la concentrazione di lavoro pubblico al sud e nelle regioni a statuto speciale. Il secondo e l’efficienza del pubblico impiego, cioè il ritorno in termini di servizi di cio che paghiamo come contribuenti. Ebbene, in Italia oltre al sud la fanno da padrone le regioni a statuto speciale: Val d`Aosta, Trentino Alto Adige, Friuli Venezia Giulia, Sicilia e Sardegna, Nel senso letterale: hanno la più alta concentrazione di pubblici dipendenti (in Val d’Aosta quasi il 10 per cento dei residenti, neonati inclusi) e ne assumono quanti vogliono a differenza che nel resto d’Italia e d’Europa. Ovvero, si comportano come le economie pianificate dell’est europeo prima della caduta del muro di Berlino. Certo con risultati contrastanti: nel sud l’impiego pubblico è evidentemente una forma indebita di ammortizzatore sociale, che però il resto d’Italia paga a vita a differenza della cassa integrazione. Al nord si tratta di un’emanazione del potere locale, che sfugge al controllo dello Stato, e tuttavia fa funzionare i servizi. Ma è proprio sui servizi, cioè su quanto gli oltre tre milioni di dirigenti, funzionari e impiegati giovino ai contribuenti e all’economia italiana, che li pagano, che vanno misurate le statistiche.
Nella relazione “Efficienza della Pubblica amministrazione in Italia” pubblicata nel 2016 dalla Commissione europea, il nostro paese risulta al 23mo posto su 28. Bruxelles lamenta, testualmente: “Efficienza ed efficacia del settore pubblico italiano inferiore alla media europea; eccessiva durata delle procedure burocratiche; età media dei dipendenti pubblici più alta nella Unione europea; 18 per cento in possesso di laurea; 34 per cento non in possesso del diploma di istruzione secondaria; inefficienza del settore pubblico come ostacolo alla crescita delle imprese e degli investimenti esteri; inefficienza delle società a partecipazione pubblica locali; sistema degli appalti pubblici con il più alto tasso Ue di procedure negoziate senza bando di gara e di appalti aggiudicati in base a una singola offerta; cattivo utilizzo dei fondi strutturali europei; lunga durata dei procedimenti giudiziari civili”.
Da questo orecchio né la Cgil di Susanna Camusso, né i grillini mattatori del populismo italiano, né la magistratura (essa stessa dominus del pubblico impiego), vogliono proprio sentirci. Il sindacatone della sinistra, fautore della concertazione nazionale della Pubblica amministrazione, e baluardo, contesta sistematicamente ogni cifra sull’assenteismo come le ultime rese note dall’Inps: nel 2015 tra malattie e permessi vari extra ferie sono stati 19,3 giorni l’anno a persona nel pubblico, contro i 13 del privato, una differenza che costa allo stato 3,7 miliardi. I Cinque stelle li abbiamo visti all’opera a Roma: ampie rassicurazioni ai dipendenti capitolini e contratti a pioggia. Quanto ai magistrati, negli ultimi mesi tra Tar e Consiglio di stato hanno riammesso nelle graduatorie dei precari della scuola ben 30 mila titolari di “legittima aspettativa” alla cattedra di ruolo, riportando le liste di attesa a 80 mila. Si tratta di diplomati alle magistrali che “legittimamente” intendono concorrere al posto fisso nelle elementari, specialmente al sud dove non ci sono cattedre, Notoriamente poi gli impiegati pubblici non possono essere licenziati, a differenza di Gran Bretagna, Spagna e Germania (la stessa riforma del ministro competente Marianna Madia prevede casi estremi). E queste sono altre ganasce che stringono l’Italia.