Le mani sui risparmi
Vittorio Malagutti – L’Espresso
Mettere le mani nelle tasche degli italiani passando dalla porta di servizio del loro conto in banca. Matteo Renzi e il suo governo hanno scelto di celebrare così la “Giornata mondiale del risparmio”, che cade, come ogni anno, il 31 ottobre. C’è poco da festeggiare, in effetti. Conti correnti e depositi vincolati, fondi d’investimento e gestioni patrimoniali, obbligazioni e dividendi. Con l’eccezione dei titoli di Stato e dei buoni postali, la legge di stabilità appena annunciata dall’esecutivo ha il suono sgradevole di una litania di nuove tasse per tutte le forme d’investimento. Nella storia repubblicana non si ricorda un’altra stangata di queste dimensioni al risparmio delle famiglie, se si esclude il prelievo sui depositi bancari varato nel 1992 dal governo di Giuliano Amato. Quella, però, fu un’operazione straordinaria, un intervento una tantum. Questa volta, invece, la manovra riscrive per intero la tassazione delle rendite finanziarie.
La tagliola finirà per colpite anche la previdenza. con una sorprendente inversione di marcia rispetto al passato. Ricordate gli inviti ad accantonare risorse in vista di un avvenire sempre più incerto? Niente da fare, adesso il governo vuole aumentare il prelievo fiscale anche sui fondi pensione. Perfino la rivalutazione del trattamento di fine rapporto (Tfr), cioè la parte di futura liquidazione che il lavoratore sceglie di lasciare in azienda, sarà tassata come mai prima d’ora.
I provvedimenti messi nero su bianco nella legge di stabilità rischiano di avere un primo, paradossale effetto sul piano psicologico. In una fase d’incertezza senza precedenti, tra recessione e disoccupazione, le nuove imposte vanno ad amplificare i timori per il futuro prossimo venturo perché colpiscono il gruzzolo, grande o piccolo che sia, messo da parte dalle famiglie per fronteggiare gli imprevisti. E se aumenta l’insicurezza è difficile che gli italiani riprendano a spendere. Gli acquisti vengono rimandati in attesa di tempi migliori. Addio crescita economica, allora. Il motore del Pil non riparte e la recessione si trasforma in stagnazione, con il corollario del calo dei prezzi, cioè la deflazione. Tutto il contrario, insomma, di quanto va predicando il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, che nello stimolo ai consumi vede l’antidoto migliore alla crisi.
«Bisogna spostare il peso del Fisco dal lavoro alle rendite». Questo il mantra dei renziani, che hanno sbandierato per mesi il taglio dell’Irap alle imprese annunciato dal governo e in buona parte rinviato a tempi migliori nell’ultima stesura della legge di stabilità. Il premier non ha perso tempo. La scorsa primavera, da poco insediato a Palazzo Chigi, Renzi aveva già provveduto a smantellare la riforma della tassazione del risparmio varata a fine 2011 dal governo di Mario Monti. Allora la parola d’ordine era «semplificare». E così le aliquote. con l’eccezione di titoli di Stato e fondi pensione, furono unificate a quota 20 per cento. Non mancarono le correzioni al ribasso: l’imposta sui rendimenti dei conti correnti e dei depositi vincolati passò dal 27 al 20 per cento. Renzi invece ha di nuovo alzato l’asticella fino al 26 per cento. Con il risultato che, se la legge di stabilità verrà approvata nella versione attuale, alcune forme di risparmio, come i fondi d’investimento e le gestioni patrimoniali, subiranno un prelievo più che raddoppiato rispetto a due anni fa, quando andava al Fisco il 12,5 per cento dei proventi.
Stangata? Dipende dai punti di vista. Davide Serra, il finanziere grande sponsor e consigliere del presidente del Consiglio, in passato si è più volte espresso a favore di un giro di vite ancora più pesante sulle rendite finanziarie. «L’aliquota andrebbe portata dal 20 al 30-35 per cento», ha dichiarato l`anno scorso in un’intervista il gestore del fondo Algebris, con base a Londra. Il governo per ora si è fermato a mezza strada, a quota 26 per cento. L’obiettivo dichiarato è quello di rastrellare almeno 3,6 miliardi di entrate supplementari nel 2015. Questa almeno è la cifra che compare nei documenti presentati dall’esecutivo.
Costretto a trovare nuove fonti di gettito per finanziare voci di spesa supplementari come gli 80 euro di sgravi Irpef, il ministro Padoan ha pensato bene di attingere a un serbatoio di risorse che la crisi ha fin qui intaccato solo marginalmente. Anzi, secondo lo studio più aggiornato della Banca d’Italia, a fine 2012 le attività finanziarie di proprietà delle famiglie italiane, pari a 3.670 miliardi di euro, erano addirittura cresciute del 4,5 percento rispetto all’anno precedente. Lo stesso non si può dire dei salari oppure dei profitti societari, che invece sono diminuiti per effetto del rallentamento dell’economia. Di conseguenza sono calati anche i proventi del prelievo fiscale su queste due categorie di redditi.
Va detto che negli ultimi anni la geografia del risparmio degli italiani è profondamente cambiata. I titoli di Stato, che offrono rendimenti ridotti ai minimi termini, ormai rappresentano poco meno del 5 per cento del portafoglio complessivo delle famiglie, contro il 20 per cento di una ventina di anni fa. D’altra parte, i fondi d`investimento hanno visto crescere a gran velocità la raccolta. Nei primi nove mesi del 2014 le nuove sottoscrizioni hanno raggiunto i 97 miliardi, quasi il doppio rispetto ai 55 miliardi dell’anno precedente. Secondo i calcoli della società di ricerche Prometeia, da inizio 2012 al primo trimestre 2014 le famiglie italiane hanno riversato circa 95 miliardi su fondi, polizze assicurative e prodotti previdenziali, riducendo di oltre 100 miliardi le loro attività sotto forma di Bot, Cct e Btp.
Non basta. Il boom delle Borse, almeno fino a settembre, ha anche garantito guadagni importanti ai risparmiatori che hanno puntato sulle azioni, direttamente oppure tramite i fondi. Festeggiano gli investitori, ma anche il Fisco, perché le plusvalenze della compravendita di titoli si trasformeranno in un gettito supplementare per l’Erario. E con il rialzo dell’imposta dal 20 al 26 per cento previsto dalla legge di stabilità i proventi per le casse dello Stato saranno ancora maggiori. Tutto questo, ovviamente, a condizione che i mercati non si avvitino al ribasso e che la manovra proposta dal governo Renzi arrivi al traguardo dell’approvazione parlamentare senza perdere per strada il previsto aumento delle aliquote.
Molto più ridotto, invece, sarà l’incasso garantito dal prelievo sui rendimenti dei conti in banca. I tradizionali depositi ormai offrono interessi su base annuale di molto inferiori all’uno per cento. Secondo una simulazione della Cgia di Mestre (Associazione artigiani e piccole imprese) l’aumento d’imposta dal 20 al 26 per cento si dovrebbe tradurre in un aggravio pari nella media a 93 centesimi, per un conto di 12 mila euro. Briciole, rispetto alle nuove tasse sui ricchi proventi del trading azionario o di quote di fondi comuni.
Il vero salasso a carico dei risparmiatori è un altro. Si chiama imposta di bollo, una sorta di mini patrimoniale sulle attività finanziarie. È stata introdotta nel 2012 sotto forma di un prelievo pari allo 0,1 per cento del valore di tutte le attività finanziarie (esclusi i conti correnti bancari) di proprietà di ogni singolo contribuente. L’aliquota è poi stata ritoccata due volte.Dapprima è salita allo 0,15 per cento (nel 2013) per poi raggiungere la soglia dello 0,2 per cento dall’inizio del 2014. Come dire che un portafoglio del valore di 50mila euro subirà un prelievo di 100 euro, il doppio rispetto a due anni fa. A questa somma vanno poi aggiunte le tasse da pagare sui rendimenti o sui guadagni realizzati con la compravendita di prodotti finanziari.
Particolare importante: l’imposta di bollo e sulle rendite finanziarie non si applicano in modo proporzionale al reddito del contribuente o al valore del suo patrimonio. Chi possiede titoli per 10mila euro, con rendimenti per poche decine di euro, è sottoposto ad aliquote identiche a chi amministra un portafoglio milionario di attività. All’estero non funziona cosi. In alcuni Paesi, come la Francia o la Spagna, l’imposizione è progressiva per scaglioni sulla base dei guadagni realizzati. In Gran Bretagna, invece, le rendite finanziarie vengono inserite nella dichiarazione annuale dei redditi, tassati secondo aliquote via via più alte al crescere delle entrate del contribuente. Da tempo molti esperti segnalano che allinearsi a questi modelli stranieri porterebbe maggiore equità nel sistema italiano, che finisce per favorire i più ricchi. Ma per cambiare serve tempo e invece il governo ha una fretta terribile di far cassa. Tutto rinviato, allora. E più tasse per tutti.