Tagliare la spesa pubblica con giudizio per crescere
di Salvatore Zecchini*
La recente pubblicazione del Documento di Economia e Finanza del Governo, nonché del libro di Pennisi e Maiolo “La buona spesa”, riaccende l’attenzione sull’urgenza di ridurre la spesa pubblica, in particolare quelle parti frutto di sprechi ed inefficienze, al fine di acquisire margini per interventi mirati ad accrescere il potenziale produttivo del Paese.
La spesa pubblica ha raggiunto 826 miliardi l’anno scorso con un incremento molto modesto dall’inizio di questo decennio, ma ha costantemente oscillato tra poco sotto (49,1% nel 2011) e poco sopra il 50% del PIL (50,5% nel 2015; 51,2% nel 2014), che vuol dire che il soggetto pubblico era e rimane il principale attore nella produzione e distribuzione di reddito rispetto alle imprese, famiglie e settore estero.
Ma questo risultato va qualificato, perché una quota tra il 4,8 e 4,2 % del PIL è diretta alla remunerazione del debito pubblico (4,2% nel 2015) e una quota attorno al 2% del PIL (2,3% nel 2015) è destinata alla formazione di capitale nella forma di investimenti fissi utili per migliorare il potenziale di crescita. Inoltre una quota pari all’8% serve per investire in capitale umano attraverso il sistema di istruzione e ricerca, e un 2% circa in spese per la difesa. Nel complesso, la spesa corrente primaria è lievitata leggermente, pur restando stabile negli ultimi 3 anni, collocandosi nell’ordine del 42% del PIL (42,2% nel 2015).
Lasciando da parte la spesa per interessi, che è guidata dalla BCE e dai mercati finanziari, tutto il resto, inclusa la spesa sociale, si presta logicamente a passare sotto l’esame di una revisione di spesa, anche la spesa definita come “non aggredibile”, che Piero Giarda ha stimato in 500 mld circa. Infatti, ben poco rileva che una parte sostanziale della spesa ha carattere obbligatorio, perché all’esecutivo nulla vieta di migliorare efficacia ed efficienza degli interventi obbligatori, riducendone i costi a parità di risultato.
Una volta definito l’ambito di revisione della spesa, bisogna affrontare il problema della finalità della revisione, perché questa ne condiziona e delimita il campo di applicazione, la portata e le modalità. Revisione non vuol dire tagli, specialmente se indiscriminati, ma ottenere lo stesso risultato, o uno migliore, al minor costo.
Dal 2011 i governi hanno perseguito la strada della revisione di spesa sotto la pressione di quattro fattori: la crisi del debito sovrano, la condizionalità che accompagna l’aiuto dell’UE e della BCE, il rischio di insostenibilità del livello di debito accumulato in un contesto di tendenza alla stagnazione se non all’arretramento della produzione di reddito, e l’acuta intolleranza mostrata da gran parte delle imprese e delle famiglie verso l’attuale livello di pressione fiscale. Quest’ultima è rimasta attorno al 43,6 % del PIL dal 2012 al 2015 (43,5% nel 2015), mentre il livello in valore assoluto della spesa pubblica nominale ha continuato a lievitare seppure lievemente.
Quindi, attualmente la revisione della spesa è dettata da quattro esigenze distinte ma collegate l’una all’altra: meno deficit di bilancio, meno tasse, meno debito pubblico, più crescita economica. Il DEF usa termini meno espliciti, o eufemismi, parlando di controllo della spesa e sua razionalizzazione per acquisire margini per la riduzione delle imposte.
Ridurre la spesa pubblica in una fase in cui si evidenziano carenze di domanda aggregata, particolarmente nei settori imprese e famiglie, può apparire come una mossa azzardata e controproducente per la crescita.
Questo ruolo di supplenza verso il privato nello spendere non sembra, tuttavia, né l’unica strada percorribile, né la più appropriata, perché in via di principio si può avere lo stesso impatto economico con minori esborsi che nel passato, spostando più risorse sulle voci di spesa più produttive di effetto sulla crescita di medio periodo, ovvero su competitività e produttività. Si tratta di tagliare sprechi, potenziare le esternalità positive (servizi pubblici più efficienti e meno costosi) e ridurre le ampie sacche di bassa produttività tra i dipendenti pubblici, a cui va aggiunta la galassia di italiani che gravitano nel mondo della politica. Donde la necessità di riforme strutturali ed istituzionali profonde nell’interesse supremo delle nuove generazioni.
Una di queste è il superamento di quella cultura dello Stato Paternalista in una economia apparentemente di mercato, in cui ci si attende che lo Stato risolva tutti i problemi dell’economia. Una visione che di fatto si è tradotta in uno Stato delle confraternite, o se si preferisce delle corporazioni.
Ma questa strada di riforme profonde è o no percorribile, e in quali tempi? Una riforma costituzionale della politica, dell’articolazione delle istituzioni sul territorio e della cultura paternalistica è impellente per un paese così piccolo, anche se disomogeneo, come il nostro. I tempi indubbiamente sarebbero lunghi; tuttavia, occorre iniziare subito e non fermarsi, mentre allo stesso tempo si deve cercare di ottenere nel breve termine una riduzione di costi, pur preservando i risultati. In questo compito primario di revisione profonda della spesa assume un ruolo fondamentale la valutazione economica. Le sue modalità e le sue precondizioni richiedono tuttavia diverse precisazioni.
Il governo afferma di avere realizzato risparmi di spesa per 18 mld nel 2015, e altri molto ambiziosi sono programmati per il triennio fino al 2018 con un crescendo dai 25 mld del 2016 ai 28,7 mld del 2018. I tagli, che sono qualificati come selettivi, si concentrano sull’amministrazione centrale piuttosto che sugli enti decentrati (Regioni e Comuni) e, in particolare, sui consumi intermedi e sul personale, toccando sia l’ammontare delle retribuzioni, sia il numero di addetti. Dalle tabelle del DEF si desume anche che una parte dei tagli riguarda le maggiori spese programmate per il prossimo triennio; quindi non incidono sul livello della spesa ma sulla sua espansione futura. Alla luce delle reazioni tra i settori colpiti e dalle pronunce della magistratura sui ricorsi sorgono, nondimeno, dubbi sulla realizzabilità di tale programma. Se, invece, si attuasse sarebbe un grande risultato perché per la prima volta si arriverebbe a tagliare circa 100 mld in 5 anni.
Tuttavia, ai tagli si accompagnano nuove spese programmate, che riducono sensibilmente l’effetto netto di risparmio, mentre l’eliminazione di spese fiscali si traduce in rialzi di imposte. Pertanto l’alleggerimento fiscale che sarebbe possibile risulterebbe modesto e limitato solo ad alcune categorie. Dal canto loro, le Regioni e i Comuni sono coinvolti meno intensamente e tendono a sfuggire in parte alla disciplina dei tagli accumulando debiti occulti, come i ritardi nei pagamenti ai fornitori, o ricorrendo a società partecipate. La spesa per prestazioni sociali, invece, resta intatta nelle sue dinamiche, mentre di riduzione del debito pubblico si parla poco o niente.
Se si vuole aggredire veramente il problema della spesa, bisogna puntare sull’analisi delle ragioni delle singole voci di spesa, sui margini di efficienza da sfruttare, sui meccanismi decisionali e sulla riorganizzazione della pubblica amministrazione, al centro come in periferia. Donde la necessità di una profonda riforma istituzionale. Tagli lineari di spesa sono invece inaccettabili anche sul piano politico, sebbene siano stati usati in questi anni.
Né si possono limitare i risparmi solo agli acquisti di beni e servizi per consumi intermedi, ma devono investire ogni comparto di spesa. Una giustificazione si trova nella analisi fatta sotto il governo Monti con il contributo di Giarda, che arrivava a stimare un eccesso di spesa tra il 20% e il 30% del totale aggredibile, ossia ai valori del 2015 si tratta di riduzioni tra 60 e 90 miliardi.
Le difficoltà di una riduzione oculata di spese stanno, oltre che sul piano degli interessi di parte, nella carenza delle condizioni per una valutazione accurata di ogni singola voce o ente, in quanto vi sono ancora molti vuoti di conoscenza. Non si sa ancora abbastanza per una valutazione sulla gestione degli enti decentrati, sui servizi pubblici locali, sulle società partecipate, sui meccanismi delle commesse pubbliche, sulla performance delle scuole, sulla gestione degli ospedali etc..
Per una valutazione adeguata degli investimenti bisognerebbe predisporre l’obbligo del beneficiario a fornire una serie di informazioni che sono essenziali per una valutazione in itinere ed ex-post. Le valutazioni che si fanno finora hanno un carattere di formalità cartolare, piuttosto che di esame dell’efficienza, dei risultati e dell’impatto economico.
Le valutazioni ex-post degli investimenti e della spesa corrente sono quasi del tutto assenti e nei pochi casi in cui esistono, non sono rese pubbliche se non raramente. I politici non amano che si dimostri i difetti delle loro scelte d’intervento e le inefficienze di gestione. Di conseguenza, viene a mancare quel processo di apprendimento dagli errori del passato, che permette di migliorare l’azione pubblica per il futuro.
Una difficoltà della valutazione sta anche nella scarsa conoscenza della metodologie di valutazione da parte dei funzionari pubblici. Un’altra risiede nei meccanismi di spesa e nell’organizzazione dell’amministrazione. La valutazione non può esaurirsi nell’atto iniziale di decisione della spesa, ma deve accompagnare tutto l’iter di esecuzione e la fase del dopo-intervento.
Come porre rimedio a questi ostacoli attraverso una riduzione di spesa su base valutativa? La lotta alla corruzione e la centralizzazione degli acquisti, sebbene importanti, appaiono come strumenti di parziale efficacia. Ad esempio, gli acquisti di un ente ospedaliero per forniture varie possono essere esenti da fenomeni corruttivi e rispondere ai criteri standard della centralizzazione, ma risultare allo stesso tempo inefficienti o inefficaci, nel caso in cui opzioni alternative consentissero di curare il paziente meglio e a costi inferiori.
Occorrerebbe avere un processo frequente di rivalutazione delle scelte di spesa, condotta da organismi indipendenti con pieno accesso alle informazioni necessarie e resa perfino pubblica. Questo è lo spirito dello zero-base budgeting.
Occorrono anche regole vincolanti in tal senso, che si applichino a tutta l’amministrazione pubblica, inclusi Regioni e Comuni. Ciò implica una piena responsabilizzazione dei centri di spesa e un forte vincolo finanziario tendente a fare attuare un programma di riduzioni di spesa a parità di prodotto su un arco pluriennale. Al tempo stesso, occorre penalizzare seriamente coloro che hanno consentito gli scostamenti di spesa e le istituzioni di appartenenza. Si sono già visti, in particolare, diversi modi di aggirare i vincoli, spostando spese in capo a società pubbliche ed espandendo i debiti verso imprese e banche.
Anche la valutazione d’impatto dovrebbe guidare le scelte, possibilmente sperimentando tecniche nuove, come la stima di soluzioni contro-fattuali, o la selezione casuale su piccola scala dei destinatari degli incentivi agli investimenti all’interno di un gruppo di progetti ritenuti eleggibili per le agevolazioni.
Naturalmente, questa opera di razionalizzazione richiede un massiccio sforzo di formazione dei decisori pubblici in materia di valutazione e gestione della spesa, con un parallelo sviluppo di metodologie adeguate e certificate nella loro efficacia. Paesi come la Germania e il Regno Unito da anni percorrono questa strada.
Altri strumenti potrebbero parimenti essere messi in campo, ma il principale è costituito dalla volontà e determinazione della leadership del Paese di ridurre sostanzialmente entrambi, spesa pubblica e prelievo fiscale in funzione della crescita. È proprio questa volontà che è soprattutto assente nella nostra particolare democrazia.
*Presidente Gruppo Ocse su Pmi e imprenditoria, membro board scientifico ImpresaLavoro
Una versione ridotta di questo articolo è uscita su Il Foglio dell’8 giugno 2016.