rubrica

L’età della pensione: riflessioni internazionali

L’età della pensione: riflessioni internazionali

di Giuseppe Pennisi*

L’età “ottimale” della pensione è tema già affrontato in questa rubrica. In un’ottica libera e con un sistema previdenziale essenzialmente pubblico a ripartizione ma in cui le spettanze sono calcolate secondo un metodo contributivo figurativo (come quello italiano), la decisione di lasciare il lavoro e di percepire la pensione, dovrebbe essere lasciata all’individuo. Naturalmente, di solito, quanto prima si “va in pensione”, tanto più basso è il “montante” accumulato e tanto minori sono le spettanze annuali o mensili per una data aspettative di vita. Tuttavia, il mondo non è così semplice. Dove esiste una previdenza pubblica, occorre porre dei “paletti” in termini di età in cui cominciare e percepire le spettanze al fine di evitare che il sistema venga messo a repentaglio da “bracconieri” che andando in pensione troppo presto (nella speranza che anche ove si esaurisse la pensione basata sul montante ci sarebbe comunque un sostegno sociale).

La Yale Law School ha in corso di pubblicazione un volume che tratta i problemi della terza età , dal titolo “New Deal for Old Age”. I singoli capitoli vengono pubblicati in via telematica, prima di essere finalizzati, come “Yale Law School Public Law Reserch Paper”. Il numero 566 di questi Paper è un saggio di Anne Alstott (luminare di diritto pubblico di Yale) proprio su questo tema.  

Anne Alstott parte dalla premessa che un coro di economisti e giuristi americani chiede una revisione al rialzo dell’età per poter percepite la Social Security, pilastro di base del sistema previdenziale federale americano (spesso i pensioni americani contano su tre pilastri: una pensione “professionale” derivante dalla contrazione ed una frutto di fondi pensioni privati). Attualmente l’età per accedere alla Social Security è 66 anni. Tuttavia, a questo coro si contrappongono, a mò di contrappunto, voci  secondo le quali, alzare i requisiti di accesso, pur avvantaggiando i giovani, penalizza i poveri e coloro che vengono espulsi dal mercato del lavoro prima di raggiungere la vecchiaia. Tra l’altro, i poveri, coloro che guadagnano poco e gli espulsi hanno statisticamente un’aspettativa di inferiore a quella di coloro che hanno redditi medio-alti. Quindi si pone un problema di fondo di politica previdenziale: come giungere ad un equilibrio tra equità intergenerazionale ed equità infragenerazionale.

Anne Alsott sottolinea che l’età è una “categoria contingente” il cui significato fisico e sociale varia. Invece di “partire dall’età” occorre esaminare in profondità gli obiettivi della politica previdenziale. Il saggio mostra come sia, tecnicamente e politicamente, possibile mantenere la possibilità di andare in pensione relativamente presto per i lavoratori che ne hanno effettiva esigenza e, al tempo stesso, mettere in atto un sistema di incentivi per i lavoratori che vogliono e possono lavorare di ritardare l’età in cui cominciare a percepire la Social Security.

È una lettura da cui si traggono lezioni anche per temi su cui sta tribolando l’Italia.

*Presidente del board scientifico di ImpresaLavoro

Olimpiadi 2024 a Roma: serve una (seria) analisi costi-benefici

Olimpiadi 2024 a Roma: serve una (seria) analisi costi-benefici

di Giuseppe Pennisi

Non sta certo a me esprimere un’opinione sul dibattito relativo alle possibili Olimpiadi del 2024 a Roma. Da economista, però, ritengo di avere il dovere etico di ricordare che da decenni si fanno analisi economiche sulla base di solidi numeri per quantizzare costi e ricavi, delineare strategie vincenti, mettere in guardia da tattiche perdenti.

Ad esempio, l’Università di Amburgo ha esaminato (in uno studio pubblicato su Hamburg Contemporary Economic Discussions) 48 candidature nell’arco di tempo tra il 1992 e il 2012 e costruito un modello che tiene conto della logistica, della situazione climatica, e del tasso di disoccupazione. Una conclusione importante è che il parco infrastrutturale, i trasporti pubblici e la nettezza urbana devono essere eccellenti. Questo non il caso di Roma.

Le Olimpiadi, comunque, non sono affatto “un affare” in termini di ricavi finanziari (giustapposti ai costi finanziari) per la città, o le città, che le ospitano. Tre economisti greci hanno condotto una valutazione ex-post delle Olimpiadi di Atene del 2004 (è pubblicata sulla rivista Applied Financial Economics, Vo. 18 n. 19 del 2008); finanziariamente, hanno guadagnato solo gli sponsor, le azioni delle cui imprese hanno avuto una rapida ma breve impennata quando la capitale greca è stata scelta – quindi, un effetto annuncio. Di recente, economisti greci hanno individuato nelle Olimpiadi del 2004 una delle determinanti dell’impennata del debito pubblico greco.

Interessante una dettagliata valutazione dei giochi invernali: i costi superano i benefici, anche senza contabilizzare le spese per le infrastrutture (perché permanenti e non connesse solo all’evento) e quantizzando “l’orgoglio della città e della Provincia” di ospitare le gare. In effetti, stime analitiche dei probabili flussi turistici sono modeste (ed i costi associati al turismo olimpico superano i ricavi) come peraltro già rilevato in occasione di altre Olimpiadi, ad esempio quelle tenute nel 1996 ad Atlanta in Georgia).

Uno dei lavori sugli esiti economici non brillanti delle Olimpiadi di Atlanta è intitolato: “Perché gareggiare per essere sede di Giochi?”. La risposta viene data da due saggi relativi uno alle Olimpiadi di Pechino del 2008 (pubblicato nello Sports Lawyer Journal) e l’altro alla Coppa del Mondo giocata in Germania nel 2006 (CESifo Working Paper No. 2582). I costi per la collettività vengono in questi casi superati, anche di molto, dai benefici per la collettività perché l’evento riguarda l’intera Nazione e contribuisce al “Nation Building”.

Si potrebbe dire che le Olimpiadi di Roma del 1960 contrassegnarono la ripresa dopo una lunga fase di guerre. Dimentichiamo che allora il Pil dell’Italia cresceva del 5-6% l’anno, il debito pubblico era un terzo del debito nazionale e il tasso di disoccupazione si avvicinava al 3% toccato nel 1963. Si dovrebbe anche ricordare che Ferenc Janossy (uno dei maggiori economisti, in un lavoro del 1971 (tradotto in tedesco) giudicò le Olimpiadi del 1960 (e le spese improduttive ad esse connesse) come un segno della fine del miracolo economico.

Ho la mente aperta: la proposta di tenere olimpiadi a Roma nel 2024 dovrebbe essere corredata da un’analisi costi-benefici dinamica secondo il metodo Dixit-Pindyck, insegnato per anni alla Scuola Nazionale d’Amministrazione e di cui tanto il Ministero dell’Economia e Finanza quanto il Ministero dello Sviluppo Economico hanno dimestichezza, al fine di uscire da monologhi alterni e di valutare con un metodo solido che impone analisi anche esse solide.

La nemesi della libertà

La nemesi della libertà

Questa volta non trattiamo di un paper economico ma di un volume collettaneo (curato da Dean Reuter e John Yoo Liberty’s Nemesis: the Unchecked Expansion of the State pubblicato dall’editore Encounter. Sono ben 576 pagine e si può acquistare per $ 32,99. È un volume americano, che tratta di temi istituzionali ed economici tipici degli Stati Uniti, ma che si consiglia di leggere mentre ci si prepara al referendum elettorale, accoppiandolo, se possibile, ad un breve saggio di Walter Bagehot: Napoleone III. Lettere sul Colpo di Stato Francese del 1851, edito nel 1997 da Ideazione ma ancora acquistabile su internet per € 8.26.

I due libri riguardano rispettivamente la Francia delle metà dell’Ottocento e gli Usa di questi anni. Cosa hanno in comune con l’Italia e con i temi che possono interessare i lettori italiani? Ambedue illustrano come si passa da Repubblica, con garanzie repubblicane, a Monarchia. Le lettere di Bagehot lo descrivono tramite un osservatore straniero, corrispondente a Parigi, di un giornale britannico, prima di creare The Economist. I saggi raccolti da Dean Reuter e John Yoo sono lavori accademici di politologi, sociologi ed economisti sulla trasformazione strisciante del sistema istituzionale americano.

Così come il 3 giugno 1946, numerosi italiani si chiesero se, al referendum istituzionale, avesse vinto la Monarchia o la Repubblica. Nel 1787, una “delegata”, la Signora Powell pose una domanda analoga a Benjamin Franklin che rispose: La Repubblica… se riusciamo a mantenerla tale.

L’analisi, asettica, dei saggi nel volume prende l’avvio dalla Presidenza Wilson che, all’inizio del secolo scorso, iniziò a cambiare la Costituzione “sostanziale” repubblicana con una seria di autorità “indipendenti” (la Federal Reserve, la Federal Trade Commission, la US Tariff Commission e via discorrendo) che, nella realtà effettuale delle cose rispondevano alla Casa Bianca. Attenzione: il Presidente ebbe la complicità del Congresso, che in tal modo, si sgravava di compiti difficili e noiosi, nonché tali da scontentare parte dell’elettorato. La Corte Suprema ci mise del suo.

Ma, sottolineano i saggi raccolti nel volume, negli ultimi otto anni c’è stata un’accelerazione: dalla “amnistia” di Obama in materia di immigrazione clandestina all’espansione delle funzioni della Environment Protection Agency, e via discorrendo. In breve la combinazione di potere regolatorio senza limiti e di delegazione senza limiti è aggravata da una frattura tra l’Esecutivo ed il Congresso. L’analisi è dettagliata e richiede una conoscenza del sistema istituzionale americano per apprezzare il mutamento effettivo delle garanzie repubblicane negli Usa. “Se i conservatori – scrive Yoo nella conclusione – vogliono far fare marcia indietro ad un Esecutivo ed ad autorità indipendenti ormai autoreferenziali, devono cambiare fondamentale il loro approccio al diritto costituzionale ed all’Esecutivo […] l’America è benedetta da una magnifica Costituzione se riesce a riconquistarla”.   

L’Italia e la legge di Okun

L’Italia e la legge di Okun

Chi ricorda ancora la Legge di Okun? Prende il nome dall’economista Arthur Melvin Okun (che la propose nel 1962). È una legge empirica che collega il tasso di crescita dell’economia tramite le variazioni nel tasso di disoccupazione. Secondo questa legge, se il tasso di crescita dell’economia cresce al di sopra del tasso di crescita potenziale, il tasso di disoccupazionediminuirà in misura meno che proporzionale. Ne consegue che le variazioni di produzione influiscono in modo meno che proporzionale sulla disoccupazione. Questo perché, a fronte di una crescita della domanda, le imprese preferiscono chiedere ai loro dipendenti di fare straordinari piuttosto che assumere nuova manodopera ed è possibile che parte dei nuovi assunti non fossero precedentemente previsti nella forza lavoro essendo classificati come lavoratori scoraggiati. Inoltre, data tale relazione, varrà che se la crescita è inferiore al tasso normale, la disoccupazione sarà maggiore di quella del periodo precedente.

La legge di Okun è stata associata a considerazioni di tipo Keynesiano, in quanto suggerisce che per poter raggiungere il tasso di disoccupazione considerato come obiettivo di politica economica è necessario che la crescita del PIL superi quella potenziale di una determinata misura. È una “legge” particolarmente pertinente all’Italia in questa fase in cui si analizzato le implicazioni del Jobs Act.

A fine aprile, poco prima della pubblicazione dei dati INPS che hanno fatti sorgere molti dubbi sulla efficienza e la efficacia di quello che sarebbe l’architrave delle riforme economiche strutturali del Governo, la rivista telematica di ricerca economica Empirica ha messo online un lavoro di Lucan Zanin di Prometeia (The Pyramid of Okun’s Coefficient for Italy) che ha stimato i parametri cruciali per verificare la Legge di Okun in Italia in modo disaggregato, ossia per età e genere.

I dati sul tasso di disoccupazione per età e genere non sono disponibili nelle statistiche ufficiali; quindi Zanin li ha stimati sulla base delle indagini Istat delle forze di lavoro per il periodo 2014. Vengono utilizzate due misure del tasso di disoccupazione: la misura tradizionale che include i lavoratori con o senza esperienza di lavoro. Quando la Legge di Okun è stimata utilizzando il tasso di disoccupazione ristretto a coloro con esperienza di lavoro, i lavoratori giovani risentono meno del ciclo economico. Man mano che la forza di lavoro invecchia, il divario di reattività al ciclo economico diminuisce, specialmente per il segmento della forza di lavoro con più di trent’anni. Infine l’analisi statistica individua che non ci sono differenze significative di genere.

Le conclusioni sono abbastanza evidenti: non sono i ritocchi alla normativa sul lavoro o gli incentivi a breve termine a ridurre la disoccupazione, specialmente quella dei giovani, ma una crescita economica vigorosa che riporti le imprese ad assumere.

Libertà economiche e sviluppo

Libertà economiche e sviluppo

Non c’è sviluppo senza libertà economiche e tolleranza. Questo il succo di due lavori scientifici recenti scelti questa settimana per i lettori del Centro Studi Impresa Lavoro. Il primo è un saggio Leandro Prados de la Escuria della Università Carlo III di Madrid (difficile capire perché gli economisti spagnoli sono poco noti e raramente citati in Italia). Il lavoro (Economic Freedom in the Long Run: Evidence from OECD Countries 1850-2007 – Libertà economiche nel lungo termine: analisi sui Paesi OCSE dal 1850 al 2007) è apparso nella The Economic History Review Vol. 68, No. 2 pp. 435-468. The Economic History Review è una delle più prestigiose riviste di storia economica a livello internazionale.

Lo studio presta indicatori economici per le principali dimensioni delle libertà economiche per i Paesi avanzati ad economia di mercato, specificamente quelli che facevano parte dell’Ocse già prima del 1994. Negli ultimi cento cinquanta anni, le libertà economiche sono aumentante e, nei Paesi analizzati, hanno raggiunto due terzi del massimo possibile. Tuttavia, l’evoluzione non è stata lineare. Dopo una forte espansione dalla metà dell’Ottocento, la Prima Guerra Mondiale ha provocato non solo un arresto ma anche un ritorno al passato e negli Anni Trenta c’è stato un drammatico declino. Notevoli i progressi durante gli Anni Cinquanta, pur non raggiungendo i livelli precedenti la Prima Guerra Mondiale. Dopo un periodo di stagnazione, la lunga fase di espansione dall’inizio degli Anni Ottanta ha portato ai livelli più elevati di libertà economica negli ultimi due secoli.

Ciascuna delle principali tipologie di libertà economia ha avuto tendenze ad essa specifica ed il contribuito all’indice complessivo è variato nel corso degli anni. In generale, il miglioramento dei diritti di proprietà è stato l’elemento che più e meglio ha contribuito al progresso di lungo periodo della libertà economica.

Sul Journal of International Business Studies (Vol. 47 No.4, pp. 480-497) Stelio Zanakis e William Neuburry (ambedue della Florida International University) e Vasyl Taras della University of North Carolina, giungono a conclusioni analoghe in materia di tolleranza (Global Social Tolerance Index and Multi-Method Country Rankings Sentsitivity – Indice Globale di Tolleranza Sociale ed ordinamento per Paesi con metodi differenti).

Utilizando i dati delle Nazioni Unite sui “valori” nei differenti Paesi e dati di 56 Paesi (con 83.000 interviste utilizzabili) i tre economisti costruiscono un Global Tolerance Index (GTI) che incorpora varie tipologie di tolleranza (di genere, di religione, nei confronti delle minoranze e degli immigrati). L’indice fornisce indicazioni utili nel forgiare politiche. Non è una coincidenza che dove c’è più libertà c’è anche maggiore tolleranza.

Le dimensioni del perimetro pubblico e la crescita

Le dimensioni del perimetro pubblico e la crescita

di Giuseppe Pennisi*

È solo un’ipotesi di liberali incalliti come noi quella secondo cui le dimensioni del perimetro pubblico incidono sulla crescita dell’economia italiana? Un’autorevole rivista scientifica internazione (The European Scientific Journal Vol. 12 No.7, pp. 149-169) pubblica un saggio di Cosimo Magazzino (Università di Roma, Royal Economic Society, Italian Economic Association) e di Francesco Forte (professore emerito all’Università di Roma La Sapienza) in cui si sostiene la medesima tesi.

Cosimo Magazzino è un trentaseienne professore di econometria con vaste esperienze internazionali. Francesco Forte Forte (classe 1929) è stato chiamato nel 1961 alla cattedra tenuta da Einaudi all’Università di Torino. È stato più volte componente di Governi, nonché editorialista di numerose testate. È un liberale “delle regole” al pari di Einaudi, nonché un europeista convinto – è stato anche ministro per il Coordinamento delle politiche comunitarie. Nel suo ultimo libro, Einaudi versus Keynes (IBLibri, Torino pp.342 , € 20), un saggio che gli ha comportato  sei anni di lavoro, tratta, tra l’altro, de “la terza via di Einaudi per l’Unione Europea, fra la politica fiscale e monetaria keynesiana e quella anti-keynesiana“. Quindi, i due autori sono liberisti moderati.

Il saggio ‘Dimensioni della sfera pubblica e crescita in Italia’ (Government Size and Growth in Italy) contiene una verifica econometrica del nesso tra il perimetro della settore pubblico e la crescita, utilizzando serie storiche dal 1861 al 2008, quindi dall’unità d’Italia all’inizio della crisi da cui, forse, stiamo uscendo. L’analisi viene applicata non solo ai principali indicatori macro-economici ma anche agli effetti delle spese pubbliche, all’occupazione (e di converso alla disoccupazione ed alla riforme tributarie e di politica di bilancio nel lungo periodo. I risultati dell’analisi econometrica mostrano che non c’è una relazione lineare tra le dimensioni del settore pubblico (misurate in termini di rapporto tra spesa pubblica e Pil).

Negli ultimi vent’anni in particolare, emerge una relazione a U che suggerisce che tagli alla spesa pubblica accentuato la dinamica del Pil. Questo risultato – concludono i due autori – è in linea con gran parte della letteratura recente. Curiosamente, l’analisi indica che negli anni della Monarchia il vincolo del bilancio in pareggio ha leggermente rallentato la crescita. Quindi, diminuire la sfera del settore pubblico, ma se necessario, utilizzare, con giudizio e perizia, anche leggeri disavanzi di bilancio.

Questa analisi è valida dopo la crisi? Essenzialmente sì anche se gli effetti della recessione sono stati eterogenei. Lo documentano Andrea Locatelli, Libero Monteforte e Giordano Zevi- tutti e tre del servizio studi della Banca d’Italia- nel lavvoro Heterogeneous Fall in Productive Capacity in Italian Industry During the 2008-13 Double-Dip Recession – Bank of Italy Occasional Paper No 313. Lo studio analizza micro-dati per identificare quali settori hanno perduto più capacità produttiva a ragione della crisi (suddivisa in quattro periodi: 2001-07 (i prolegomeni della crisi); 2008-09 (la fase iniziale), 2010-11 (la leggera ripresa), 20112-13 (la seconda recessione). I risultati principali sono i seguenti: a) la perdita di capacità produttiva varie in modo significativo da settore a settore; b) la grandi imprese sono quelle che hanno avuto maggior successo nell’evitare perdite; c) la vendite nei mercati stranieri hanno sofferto nella prima fase ma si sono riprese nell’ultima; d) il Centritalia è l’area che ha ‘tenuto’ meglio.

I due lavori, anche se hanno obiettivi differenti, hanno un nesso: le imprese prosperano o reggono bene le crisi se sfera pubblica non è invadente.

*Presidente del board scientifico di ImpresaLavoro

Riforma pensioni: cosa c’è in cantiere

Riforma pensioni: cosa c’è in cantiere

di Giuseppe Pennisi*

Come preconizzato sin dall’aprile scorso dal Centro Studi Impresa Lavoro in una tavola rotonda organizzata presso il CNEL, il Governo ha riaperto il cantiere sulle pensioni. L’Esecutivo sta pensando ad un mix di interventi da includere in settembre nel prossimo disegno di legge di stabilità per rendere più flessibile l’accesso alla pensione. Al centro resta l’ipotesi di una pensione a partire dai 62/63 anni con una penalità tra il 2 % ed il 3% per ogni anno di anticipo dell’uscita rispetto all’età della pensione di vecchiaia, cioè 66 anni e 7 mesi. Resta da comprendere il destino dei lavoratori precoci cioè coloro che vantano una lunga carriera contributiva: questi lavoratori chiedono un tetto a 41 anni di contributi per la pensione anticipata senza alcuna penalità sull’assegno.

Per i disoccupati il governo starebbe poi vagliando la possibilità di ritoccare la riforma degli ammortizzatori sociali, varata nel 2015 con l’obiettivo di prolungare di uno o due anni la copertura garantita oggi dalla Naspi, che dura al massimo 2 anni, per “accompagnare”, con una contribuzione figurativa, questi lavoratori alla pensione. Ciò consentirebbe di dare una risposta al superamento, dal 1° gennaio 2017, dell’indennità di mobilità e al gran numero di lavoratori disoccupati senior cioè con età superiori a 60 anni senza occupazione e senza più alcun sostegno al reddito.

Accanto a queste misure ci sarebbe un terzo canale di anticipo del pensionamento per i lavoratori coinvolti in processi di ristrutturazioni aziendali o per svecchiare la forza lavoro i cui oneri sarebbero, questa volta, posti a carico prevalentemente delle imprese con il coinvolgimento eventuale delle banche. Molte però le altre opzioni sul tavolo, compresa una revisione della normativa per i lavori usuranti, modifiche fiscali alla previdenza  complementare per rendere più appetibile il ricorso all’assegno integrativo e, in particolare, sull’utilizzo del TFR che potrebbe essere destinato ad arricchire l’importo dell’assegno erogati proprio dai fondi complementari.

In questo contesto, due lavori analitici recenti possono essere utili alle riflessioni di Governo e Parlamento. Il primo è un duro attacco ai sistemi previdenziali su base retributiva ed a perimetri troppo ampi della spesa pubblica. Ne è autore Daniel Smyth del Johnson Center della Troj University ed è intitolato Breaking Bad: Public Pensions and the Loss of that Old-Time Fiscal Religion. La prima parte del lavoro non riguarda direttamente la previdenza ma l’economia keynesiana e la “tendenza ad accumulare debito pubblico ed a promuove sistemi previdenziali non sostenibili”.  La seconda riguarda la poca trasparenza e le fuorvianti ipotesi attuariali dei sistemi previdenziali a benefici definiti “che hanno stimolato i legislatori a porre i costi delle pensioni sui contribuenti del futuro”. “Far transitare (come ha fatto l’Italia) le pensioni pubbliche da sistemi retributivi a sistemi contributivi può essere un passo verso la riduzione della sfera pubblica”.

Il secondo è un lavoro di tre docenti dell’Università di Padova: Marco Bertoni, Giorgio Brunello e Gianluca Mazzarella. Lo ha pubblicato il principale istituto Tedesco di economia del lavoro, l’IZA come Discussion Paper No. 9834. Il documento rafforza la tesi presentata il 5 aprile in questa rubrica sulla base di uno studio comparato della London School of Economics: ritardare, entro certi limiti, l’età della pensione, fa bene alla salute. Il lavoro analizza i cambiamenti dell’età minima per andare in pensione introdotti in Italia nel decennio 1990 -2000 e dimostra che gli italiani di genere maschile tra i 40 ed i 39 anni hanno risposto aumentando le attività fisiche, riducendo il fumo ed il consumo di alcolici ed adottando diete più salubri.

*Presidente del board scientifico del Centro Studi ImpresaLavoro

Un’assicurazione europea contro la disoccupazione

Un’assicurazione europea contro la disoccupazione

C’è relativamente poca attenzione nei confronti delle pubblicazioni di ricerca della Direzione Analisi-Economica Finanziaria del Dipartimento del Tesoro del Ministero dell’Economia e delle Finanza. La serie di paper, iniziata quando la Direzione era guidata da Lorenzo Codogno (ora alla London School of Economics), prosegue ora che ne è a capo Riccardo Barbieri Hermitte. Sono lavori di policy non solo di ricerca pure; per questo meritano di essere letti e discussi.

Di pregio il lavoro di Gianfranco Becatti, Germana Di Domenico, Giancarlo Infantino, intitolato “Un’assicurazione europea contro la disoccupazione: contesto, analisi e proposte di policy” . È il paper NT numero 1/2015. In breve lo studio sottolinea come  la crisi degli ultimi anni abbia mostrato che gli shock asimmetrici possono compromettere la stabilità e la performance economica dell’area dell’euro, con implicazioni negative anche di natura sociale. La politica di bilancio può svolgere un ruolo chiave nell’arginare tali effetti, ma, ad oggi, l’architettura europea non prevede meccanismi di stabilizzazione automatica.

In tale contesto, si è recentemente sviluppato un interessante dibattito circa l’opportunità di dar vita ad un nuovo strumento comune di assicurazione contro la disoccupazione, che si è arricchito di molteplici contribuiti scientifici. Nella nota si argomentano le diverse ipotesi tecniche avanzate in merito al disegno di un tale meccanismo a livello europeo, riportandone i potenziali vantaggi ma anche le aree di criticità ed evidenziando le direttrici lungo le quali potrebbe muoversi un’Europa più integrata, fiscalmente e socialmente, con il necessario consenso politico.

La proposta di un’assicurazione europea contro la disoccupazione – a mio giudizio- dovrebbe essere proposta dal Governo italiano in tandem con la generalizzazione del sistema previdenziale contributivo (in gergo europeo NDC, Notional Defined Contribution) che è stato applicato inizialmente in Italia ed in Svezia nel 1995 e successivamente adottato da numerosi Stati neocomunitari. Ciò renderebbe non solo più uniforme i meccanismi sociali dei singoli Stati dell’Unione Europea ma faciliterebbe risposte “europee” a shock asimmetrici.

Le pensioni lunghe non fanno bene alla salute

Le pensioni lunghe non fanno bene alla salute

di Giuseppe Pennisi

Il libro “A vent’anni da un’occasione mancata?” di Fabrizio e Stefano Patriarca (rispettivamente un figlio e un padre che coltivano il medesimo interesse per le problematiche del lavoro e del welfare) rivela un enorme incremento delle pensioni di anzianità caratterizzate da età di pensionamento attorno ai 57-58 anni per gli anni 2000-2010 (favorite, peraltro, anche dalla liberalizzazione del cumulo tra pensione e reddito) ossia prima che terminasse il periodo di transizione della riforma del 1995. Ne derivano diverse conseguenze: in Italia il tasso di occupazione della popolazione in età compresa tra i 55 e i 64 anni è il più basso di tutti i Paesi considerati e si situa al di sotto sia della media europea che di quella dell’Eurozona; la permanenza media sul mercato del lavoro è ben di cinque anni inferiore alla media europea, di sette anni più bassa di quella della Germania e del Regno Unito e di quasi 10 anni rispetto a quella olandese.

Queste conseguenze non fanno certamente bene alla finanza pubblica. Fanno bene alla salute di chi va in pensione relativamente giovane? Gabriem Heller Sahalgren della London School of Economics ha appena posto on line un paper (Retirement Blues) in cui vengono analizzati gli effetti sulla salute (in particolare quella mentale) in dieci Paesi europei. Lo studio utilizza sia le “età ufficiali” del pensionamento sia il comportamento degli individui rispetto alla possibilità di anticipare l’andare in quiescenza. I risultati mostrano che nel breve termini gli esiti non sono significativi. Nel lungo termine, però, la decisione di lasciare l’occupazione presto sono negativi. Sotto il profilo statistico, il risultato è “robusto” e riguarda sia le donne sia gli uomini quale che sia il loro livello d’istruzione. A conclusioni analoghe sono giunti studi americani, giapponesi e coreani. In sintesi, ritardare l’età della pensione non fà bene solo alle casse degli enti ma anche alla sanità di mente ed alla produttività.

*Presidente del board scientifico di ImpresaLavoro

L’impresa in politica per contrastare la mediocrazia

L’impresa in politica per contrastare la mediocrazia

di Giuseppe Pennisi

Da circa un decennio due studiosi italiani trapiantati negli Stati Uniti, Andrea Mattozzi (del California Institute of Technology) e Antonio Merlo (della University of Pennsylvania), studiano la Mediocracy (“Mediocrazia- ossia il potere dei mediocri”) . Fondamentale il loro saggio uscito come  NBER Working Paper No. W12920. È un’analisi teorica , ma Mattozzi e Merlo non nascondono di averla basata sul “caso Italia”. La ricerca studia i metodi reclutamento iniziale nei partiti e costruisce un modello di reclutamento politico in cui i partiti sono in concorrenza con le imprese e le lobby dell’industria, della finanza, del commercio e via discorrendo. Anche ove i partiti potessero avere la prima di scelta (le imprese e le lobby pagano di più ed offrono carriere più stabili), decidono di reclutare i mediocri al fine di evitare che i loro leader siano minacciati, o meglio insidiati, dall’interno.

Secondo Francisco J. Gomes (London Business School), Laurence Klotikoff (Boston University) e Luis M. Viceira (Harvard Business School) ciò è all’origine del fenomeno che denominano “The Excess Burden of Government Indecision” (“Il peso eccessivo dell’indecisione dei Governi”) pubblicato come NBER Working Paper No. W12859. La mediocrità ha come conseguenza la tendenza a procrastinare quando si devono dare soluzioni a problemi di politica pubblica. Ciò genera un onere molto forte sulla collettività.

Un nuovo studio quantitativo abbraccia i Paesi OCSE. Ne sono autori Bernd Hayo e Florian Neumeier ambedue della Università di Marburg in Germania. È uscito nell’ultimo numero di “Economics and Politics” (Vol, 28, No. 1 2016, pp,55-78) con il titolo Political Leaders “Socioeconomic Background and Public Budget Deficits; Evidence from OECD Countries”. L’analisi si basa su dati di 21 Paesi OCSE nel periodo 1980-2008. In breve, lo status socio-economico dei decisori politici ad alto livello (Presidenti, Primi Ministri) ha un impatto sulle decisioni di bilancio. In sintesi, nei Paesi in cui i governi sono guidati da politici provenienti da “fasce basse” di reddito ed istruzione il rapporto deficit-Pil supera di 1,6 punti percentuali quello che prevale in Paesi guidati da imprenditori ad alto reddito dedicatisi alla  politica.

*Presidente del board scientifico di ImpresaLavoro