Troppa burocrazia blocca l’economia

Stefano Micossi – Affari & Finanza

L’economia resta piatta come una tavola e metà dell’anno è andata: la crescita quest’anno può collocarsi tra lo zero e lo 0,3 per cento, l’inflazione viaggia anche lei intorno allo 0,3 per cento l’anno. In questo quadro, incomincia a serpeggiare qualche dubbio (anche in Europa) sulla determinazione del premier a portare avanti le riforme economiche necessarie. La cartina di tornasole saranno le decisioni sull’articolo 4 della legge delega sul lavoro – il famoso Jobs Act – ora ferme al Senato in attesa del voto sulle riforme istituzionali. Si tratta di vedere se sarà finalmente superato il contratto nazionale cum statuto dei lavoratori degli anni settanta del secolo scorso, gran distruttore di posti di lavoro e vero padre del precariato a vita dei nostri figli. Ma c’è molto altro da fare; più che provvedimenti bandiera, serve un’azione costante e determinata per rimuovere i blocchi e le rigidità che impediscono l’avvio di nuove attività, gli aggiustamenti industriali, le dissipazioni nelle società in mano pubblica. Faccio due esempi.

So di un giovane che decise due anni fa di aprire un bar gelateria in una località balneare del Lazio; l’iniziativa, che comportava un investimento non trascurabile, fu accolta con favore dall’amministrazione locale, che voleva favorire gli investimenti. Ci vollero sei mesi per ottenere un’autorizzazione preliminare della ASL sul progetto del locale, quella definitiva non è mai arrivata. Mesi di lavoro infaticabile furono necessari anche per le certificazioni sanitarie, di sicurezza, acustiche, sull’aerazione e antincendio; la complicazione delle pratiche consigliò di rivolgersi a consulenti-facilitatori, al costo di qualche migliaio di euro. Alla fine fu pronta la SCIA, segnalazione certificata d’inizio attività, che venne inviata per via telematica al SUAP, lo sportello unico attività produttive del Comune – che di unico non ha nulla, dato che tutte le attività preparatorie devono essere svolte dall’interessato prima di poter inviare la SCIA. Emerse allora che, trattandosi di zona artigianale, un oscuro allegato tecnico del regolamento urbanistico prevedeva che l’attività dovesse essere limitata solamente alla vendita di prodotti da asporto; niente somministrazione di bevande, niente servizio ai tavoli. In mancanza di ogni motivazione di interesse pubblico, la restrizione era chiaramente in contrasto con la direttiva europea sui servizi e vari decreti di liberalizzazione emanati dal governo Monti; su iniziativa del sindaco, il consiglio comunale deliberò di rimuovere la restrizione e inviò la delibera per l’approvazione alla Regione – la quale ha impiegato un anno ad approvarla, perché nel frattempo non era stato nominato l’apposito comitato tecnico. Simili restrizioni sono presenti in molti piani urbanistici comunali, con finalità protettive dell’esistente; l’autorità antitrust può solo avviare un ricorso al tribunale amministrativo, le regioni collaborano malvolentieri. Come si vede, la concreta realizzazione della libertà d’iniziativa sul territorio non ha semplici soluzioni, richiede interventi molteplici a vari livelli del sistema amministrativo; di questa azione minuta, continua e determinata per l’attuazione della direttiva europea dei servizi ancora non si scorge traccia.

Il secondo esempio riguarda gli aggiustamenti industriali, che l’Italia tende a rinviare il più a lungo possibile. Gli strumenti hanno cambiato nome nel tempo: mobilità lunga, cassa integrazione straordinaria, cassa integrazione in deroga e, naturalmente amministrazione straordinaria, il cuore pulsante del sistema. Questa è un lebbrosario di imprese in ristrutturazione presso il ministero dello sviluppo economico: originariamente costituito per assistere grandi imprese in crisi, l’intervento è stato esteso nel tempo anche a imprese di minore dimensione e ora – come rivelato da Sergio Rizzo sul Corriere della Sera – anche a ospedali ed enti sindacali. Le imprese mantenute nel lebbrosario a spese dei contribuenti sono quasi 500, alcune da molti anni. Si sa che intorno al meccanismo si affollano migliaia di professionisti; la nomina a commissario è una sinecura, dato che non c’è fretta di concludere. Il sindacato la fa da padrone. Il sistema è completamente opaco: non si sa quanto costa, non sono pubblicati rapporti regolari sull’esito delle procedure, non vi sono termini per il completamento degli interventi. Fa da contorno più largo il sistema dei crediti in sofferenza e delle moratorie bancarie nei confronti di imprese in difficoltà finanziarie: a seconda delle definizioni, stiamo parlando di qualcosa tra il 15 e il 20 per cento degli attivi bancari, difficile da smobilizzare anche per una legislazione fiscale penalizzante sul trattamento delle perdite e l’insufficiente sviluppo di veicoli di cartolarizzazione dei prestiti di dubbia qualità. Nel frattempo, il nostro paese si è dotato di una moderna legislazione per le crisi d’impresa, secondo i principi del Chapter 11 americano; ha anche introdotto il seme di meccanismi moderni per la gestione attiva dei lavoratori che perdono il lavoro, l’ASPI della legge Fornero, ma il sindacato lo vede come il fumo negli occhi. Dunque, di quegli strumenti non ci serviamo abbastanza, perché implicano di riconoscere quando un posto di lavoro non esiste più e di procedere alle ristrutturazioni, con connesso riconoscimento delle perdite. Emerge distinto il quadro di un paese che non vuole fare i conti con i suoi problemi e preferisce rinviare. Non ci si può stupire se l’economia resta piatta.