L’ora dei tagli, 1123 società sono soltanto scatole vuote
Sergio Rizzo – Corriere della Sera
Carlo Cottarelli ne è perfettamente cosciente: il problema più grosso non è scovare le migliaia di società pubbliche inutili, ma come liberarsene. Venderle? Impossibile trovare qualche pazzo suicida disponibile a farsene carico. Chiuderle, allora? Ne sa qualcosa chi ci ha provato. Valga per tutte l’esempio della Siace, ovvero la Società per l’industria agricola, cartaria editoriale, di proprietà della Regione siciliana. L’hanno messa in liquidazione nel 1985, quando il Verona di Osvaldo Bagnoli vinceva lo scudetto, un commando palestinese sequestrava l’Achille Lauro e Michail Gorbaciov diventava segretario del Pcus. E ancora non ne sono venuti a capo.
In molti casi, allora, la soluzione non potrà che essere quella di accorpare, accorpare e accorpare ancora, prima di liquidare. Per tagliare intanto le poltrone nei consigli di amministrazione. Quindi i posti di lavoro inventati e clientelari. Ma non crediate che siano operazioni semplicissime. Nemmeno per quelle 2.761 società che, dice il rapporto Cottarelli sulle partecipate pubbliche, hanno più amministratori che dipendenti. Come Rete autostrade mediterranee: la quale, udite udite, non è di un ente locale sprecone, e neppure di una Regione spendacciona. Ma del Tesoro. Creata dieci anni fa dal governo di centrodestra per il progetto delle autostrade del mare, gestisce le istruttorie per i contributi dovuti ai tir che viaggiano sulle navi anziché intasare le strade. Ha cinque amministratori e quattro dipendenti, di cui tre a tempo determinato. Più alcuni contratti a progetto. Con una spesa per i compensi degli amministratori che nel 2012 superava di 55 mila euro quella per le retribuzioni del personale. Il solo amministratore delegato Tommaso Affinita, dirigente del Senato che era stato capo di gabinetto dei ministri Agostino Gambino e Pinuccio Tatarella nonché presidente dell’autorità portuale di Bari, percepiva secondo i dati pubblicati dal Tesoro un compenso di 246 mila euro.
E non sarà una passeggiata, purtroppo, neppure mettere mano alle 1.213 società che sono soltanto scatole vuote. Hanno, sì, gli amministratori. Ma nemmeno una segretaria. Il fatto è che se lo Stato centrale controlla 50 gruppi, con 526 società di secondo livello, il resto della faccenda sta tutta in periferia, e ha dimensioni enormi. Ben prima del commissario alla spending review la Corte dei conti ha provato a tracciarne i contorni. Arrivando a un livello di approssimazione che fa venire i brividi, come ha raccontato il procuratore generale Salvatore Nottola in occasione dell’approvazione del rendiconto statale, il 26 giugno scorso. Perché alle 576 società che fanno capo allo Stato ne bisogna sommare altre 5.258 di Regioni, Province e Comuni, più 2.214 «organismi di varia natura». Consorzi, enti, agenzie, che porterebbero il totale a 8.048. Con un dedalo inestricabile di partecipazioni: secondo la Corte dei conti le singole quote azionarie in mano ai soli Comuni sarebbero qualcosa come 33.065. Il condizionale è d’obbligo.
Sentite che cosa scrive Cottarelli nel suo blog: «Si è parlato di ottomila società, consorzi, enti vari partecipati degli enti locali, comuni e regioni soprattutto. Ma sono certo di più», In questa «giungla molto variegata», come il commissario uscente la definisce, c’è davvero di tutto. Perfino, sottolinea, società che vendono «ciò che è già offerto dal mercato» privato. Già. Come l’Enoteca laziale, un ristorante di proprietà della Regione Lazio, dove però certo assessori mangiavano gratis con ospiti e amici: e infatti si è scoperto che aveva accumulato un milione e mezzo di debiti. Ma senza arrivare a questi estremi, sarebbe comunque da chiedersi perché il Tesoro debba controllare una società di consulenza (Studiare Sviluppo, si chiama), o possedere ancora il 90% di Eur spa, immobiliare che ha raccolto l’eredità dell’ente che doveva organizzare l’Esposizione universale del 1942 a Roma. Che ovviamente non si tenne mai, causa seconda guerra mondiale. Proprio qui sta il punto: le Regioni e gli enti locali hanno utilizzato le società partecipate spesso per aggirare le norme statali, come il blocco delle assunzioni, alimentare il consenso o pagare dazi politici. E per lo Stato centrale intervenire su certe situazioni può rivelarsi complicato. Soprattutto quando c’è di mezzo l’autonomia. Dice tutto la vicenda della Sicilia, che fra tutte le Regioni italiane ha il record delle partecipazioni. Le società regionali hanno 7.300 dipendenti e sono costate per il solo personale, nei quattro anni dal 2009 al 2012, un miliardo e 89 milioni. Più 87 milioni per retribuire, nello stesso periodo, una pletora di amministratori: con una spesa media annua, per ogni società, di 768 mila euro. Per non parlare del miliardo e 91 milioni sborsato per farle funzionare, e dei 75 milioni di perdite nei conti economici. Perdite «costanti e rilevanti», affermano i giudici contabili, evidenziate «per tutte le società a capitale interamente pubblico» della Regione. E non succede soltanto in Sicilia se risulta in perdita, secondo Nottola, addirittura un terzo delle imprese controllate dagli Enti locali. Allucinante. Al punto da far sorgere un sospetto. Cioè che sia la loro missione: perdere soldi.