La prova del trapezio
Leonardo Becchetti – Avvenire
I dati Istat sui consumi nel primo mese del bonus degli 80 euro indicano calma piatta, e questo proprio mentre l’Italia entra in deflazione. Il vero difetto del bonus è stato parlarne così tanto, quando lo stesso Governo Renzi attribuiva a tale misura un effetto marginale sui consumi dello 0,1%. Ora che l’opinione pubblica comincia a capire i guasti del “rigorismo”, il timore è che i nostri governanti (e chi li consiglia) non siano ancora del tutto liberi da quell’errore di prospettiva.
Nel novembre 2012, su queste colonne, abbiamo cominciato a scrivere del «dividendo monetario della globalizzazione». I Paesi ad alto reddito sottoposti a una concorrenza feroce di Paesi poveri ed emergenti potevano e dovevano difendersi con politiche monetarie molto espansive che controbilanciassero il calo della domanda aggregata. Agendo così, l’inflazione non sarebbe decollata come negli anni 80, perché il vento della concorrenza globale è un vento deflattivo che limita le possibilità di rialzo dei prezzi. Prova ne sia che l’Italia è entrata ufficialmente in deflazione, per la prima volta dopo il 1959, con i dati di ieri sui prezzi di agosto (vale la pena di ricordare che il governatore della Bce Mario Draghi, ancora nel febbraio scorso, gettava acqua sul fuoco escludendo il rischio di un calo dei prezzi). Stati Uniti, Regno Unito e Giappone hanno deciso di sfruttare pragmaticamente il “dividendo monetario”. I risultati si sono visti, sono stati riconosciuti da tutti e l’inflazione non è ripartita in nessuno dei tre Paesi nonostante le massicce iniezioni di moneta effettuate dalle rispettive Banche centrali. La Ue è invece rimasta al palo, perché Draghi, aristotelicamente parlando, è stato abilissimo in potenza (quando ha sconfitto la speculazione contro l’euro avvertendo che la Bce sarebbe intervenuta con qualunque misura possibile), ma non in atto (per attuare una politica monetaria espansiva avrebbe dovuto varare due anni fa una strategia di acquisto dei titoli pubblici dei 18 Paesi dell’area euro).
Il premier italiano Matteo Renzi e Draghi si sono incontrati quest’estate per cercare di dare risposte alla crisi nella quale continuiamo a esser immersi, e ne è uscito quello che i mass media definiscono un «nuovo accordo». In cambio delle riforme strutturali italiane la Ue varerà le attese politiche fiscali (Juncker e i suoi famosi 300 miliardi di investimenti) e monetarie espansive. Il rischio insito nell’accordo è quello di un’interpretazione rigorista delle nostre riforme strutturali che le riduca al taglio dei salari e della spesa pubblica. Ovvero a due interventi che deprimeranno ulteriormente la domanda aggregata e che saranno drammaticamente controproducenti se non bilanciati effettivamente da europolitiche espansive. In questo passaggio, Renzi è simile al trapezista che si lancia nel vuoto sperando che il suo partner che si dondola sull’altalena dal lato opposto tenda la mano per afferrarlo. Il partner Draghi lo farà con solerzia o si fermerà al primo ostacolo interno affidandosi alla rete di protezione sotto il trapezio che lui stesso ha steso? In quel caso, la brutta figura sarebbe solo del trapezista Renzi.
Si dice che dobbiamo continuare nella spending review per ridurre tasse su lavoro e imprese, e l’obiettivo è sacrosanto. Ma un Paese come il nostro che ha un’imposizione di quasi 20 punti percentuali superiore all’Irlanda quanta produzione effettiva e contabile pensa di poter recuperare con gli interventi di uno o pochi punti consentiti dai tagli di spesa e dai vincoli del pareggio in bilancio? Se in Italia le Marche abbassassero di 20 punti le imposte sulle imprese tutti correrebbero a fissare lì la propria sede legale. Il problema dell’armonizzazione fiscale nella Ue (e non solo) è il problema del momento e il governo deve sostenere lo sforzo che le istituzioni internazionali e le ong (Ocse e Transparency in primis) stanno facendo per porre fine a una corsa al ribasso che rende concreto lo spettro di una ricchezza senza nazioni e di nazioni senza ricchezza.
I sostenitori della versione rigorista e semplificata delle riforme strutturali fanno spesso l’esempio della Spagna, che ha registrato nell’ultimo trimestre una variazione positiva del Pil. Ma la Spagna è uno dei casi peggiori di sostenibilità del debito con un rapporto corrente deficit/Pil al 6.6% e un debito che è esploso dal 37% del 2007, all’inizio della crisi finanziaria, fino al 94% dell’ultimo dato ufficiale del 2013. E la sua crescita dell’ultimo trimestre è drogata da deflazione e crollo dell’import. Se noi italiani avessimo seguito il “miracolo spagnolo” nella dinamica del debito, saremmo oggi già in bancarotta. Per tutti questi motivi, ripetiamolo ancora una volta, il nostro futuro si gioca in Italia e (soprattutto) in Europa. Abbiamo bisogno di un governo che superi il bias rigorista (qualcuno ha ancora dubbi sul fatto che si tratti di un errore sistematico?) e che dimostri coi fatti che le riforme davvero strutturali sono la riduzione dei tempi della giustizia civile (bene, nonostante alcune tutt’altro che marginali questioni, l’insieme della riforma), una scuola e un’università moderne che ci consentano di ridurre il gap di anni di scolarizzazione con i maggiori Paesi europei, investimenti sulla banda larga che ci tolgano dalle ultime posizioni nella classifica Ue, riduzione dei costi della burocrazia pubblica e dei tempi di avviamento di attività d’impresa. E che faccia capire che per fare queste riforme (che neanche la Germania ha operato senza allentare temporaneamente i vincoli di spesa) la camicia di forza del Fiscal Compact e il pareggio di bilancio (che un referendum per il quale si stanno raccogliendo le firme in questi giorni vuole abolire) sono anticaglie del passato e residui della sbornia rigorista.
Il vincolo del 3% nel rapporto deficit/Pil è una misura prudenziale che basta e avanza, ma senza la mano del trapezista Draghi sarà difficile uscire dalla crisi economica. L’economia è come una macchina da guidare artigianalmente con perizia sui terreni sempre nuovi ed accidentati della congiuntura mondiale. Per di più, nella Ue, alcuni comandi della macchina (tasso di cambio, politica monetaria) non li azionano i singoli Paesi. Pensare di farcela da soli, senza un serio impegno in Europa per far prevalere riforme sensate che correggano le asimmetrie tra gli Stati membri, sarebbe un grave errore.