Ora diamoci un taglio
Maurizio Maggi – L’Espresso
Duemilacentosessantotto miliardi di curo. È il debito pubblico-monstre accumulato dall’Italia. Una zavorra, in costante aumento, pronta a raggiungere a fine anno, a bocce ferme, l’impressionante livello del 135 per cento rispetto al prodotto interno lordo, cioè al totale della ricchezza prodotta dall’intero Paese. Economisti e commentatori invitano l’Italia ad affrontare sul serio il tema della riduzione dell’indebitamento, ma l’argomento non pare in cima ai pensieri del governo guidato da Matteo Renzi. Da anni piovono sul tappeto le ricette taglia debito e, anche se l’impressione è che l’esecutivo non abbia intenzione di intervenire nel breve, prima o poi anche chi sta a Palazzo Chigi e chi comanda al ministero dell’Economia il nodo dovrà provare a scioglierlo. I suggerimenti, anche fantasiosi, fioccano, però si sa che l’Italia è riottosa quando è il momento di mettersi a tagliare. “Il Sole 24 Ore”, il quotidiano della Confindustria, a metà agosto, è salito in cattedra e di proposte ne ha addirittura avanzate tre.
Le strade maestre per alleggerire il debito sono tre: tagliare la spesa, per avere meno bisogno di emettere nuovi titoli pubblici; vendere società e immobili controllati dallo Stato; consolidare-ristrutturare il debito pubblico esistente. Quest’ultima strada la si imbocca riducendo le cedole, oppure allungando la scadenza dei Btp e degli altri titoli del Tesoro e degli enti locali in circolazione, ma è politicamente la più sensibile. La necessità di intervenire alla svelta sul debito è il cavallo di battaglia di Lucrezia Reichlin. Docente alla London School of Economics, già direttore della ricerca alla Banca Centrale Europea, Reichlin dice che la limatura andrebbe fatta in seguito a un’intesa a livello europeo, certo, ma anche che l’idea che uno Stato possa non pagare una parte delle proprie obbligazioni non dev’essere ritenuta un tabù. Lo ha dichiarato tre mesi fa a “l’Espresso” e lo ha ribadito qualche giorno fa a “la Repubblica”. Giacché, sostiene, «acquistare un titolo di Stato comporta dei rischi, è una leggenda metropolitana che il capitale sia garantito». D’altronde Daniel Gros, che dirige il Centre for European Policy Studies di Bruxelles, a “Class Cncb” ha sottolineato come il rapporto debito-Pil pericolosamente vicino al 140 per cento sia una mannaia che per ora resta sospesa ma è pronta ad abbattersi non appena il mercato dovesse volgere al brutto. Da questo orecchio, però, il governo non ci sente. Il viceministro dell’Economia e delle Finanze, per esempio, di ristrutturazione proprio non vuol sentir parlare: per Enrico Morando, infatti, le conseguenze sarebbero peggiori del problema che si intende risolvere. Meglio puntare, eventualmente, sulla cessione di una fetta del patrimonio immobiliare pubblico.
Gira e rigira, si va sempre a finire lì, sulle taumaturgiche doti del mattone di Stato da vendere. «L’idea di costruire un fondo è in pista da molti anni, ma non sboccia mai e l’esperienza delle cartolarizzazioni targate Giulio Tremonti è stata un fiasco», commenta Emilio Barucci, economista del Politecnico di Milano e figlio di Piero, ex ministro del Tesoro. Sul fronte delle privatizzazioni di società pubbliche, poi, secondo Barucci non è rimasto granché da fare. «Anche cedendo quote di Eni ed Enel, o privatizzando le Poste e le Ferrovie, operazioni peraltro assai complicate, al massimo si può sperare di incassare 10 o 20 miliardi». Inoltre, aggiunge Tito Boeri, prorettore alla Ricerca della Bocconi, già consulente di Banca mondiale e Fondo monetario internazionale, «con il calo del costo al servizio del debito, anche cessioni che erano vantaggiose fino a un anno fa ora non lo sono più, visto che i rendimenti offerti dai titoli di Stato risultano sensibilmente inferiori ai rendimenti delle partecipazioni in Eni ed Enel». Per Boeri, bisognerebbe riuscire a vendere non solo i pezzi pregiati – come ha fatto il Milan con Mario Balotelli, esemplifica l’economista da grande tifoso rossonero deluso – ma cercare di alienare tutte le società dove si annida l’inefficienza, che abbonda nelle partecipate e nelle municipalizzate. «Temi», dice Boeri, «su cui ha lavorato molto il commissario Carlo Cottarelli e che dovrebbero rappresentare buona parte della politica di spending review». Per il banchiere Gianluca Garbi, amministratore delegato di Banca Sistema, il mirino va puntato proprio sulle municipalizzate e bisogna far di tutto, intanto, perché il debito smetta di crescere: «Nel decreto Salva Italia c’era una norma perfetta, che andrebbe immediatamente resa operativa. In sintesi: se perdono, le municipalizzate vanno cedute e per gli stessi servizi il Comune si rivolgerà ad altri. Così pagando ciò che gli serve, senza avere una struttura inefficiente sulle spalle. Non dimentichiamoci che l’Argentina è fallita a causa dei debiti locali, non di quelli statali». Sulla vendita degli immobili, invece, Garbi è perplesso: «I prezzi del mattone sono già bassi e le compravendite languono: se lo Stato aumenta l’offerta di immobili in assenza di domanda, la situazione non può che peggiorare».
Barucci, Boeri e Garbi, come tanti altri esperti di finanza e conti pubblici, si schierano senza se e senza ma contro qualsiasi gioco delle tre tavolette, come il passaggio delle passività dall’Esfs (il fondo europeo di stabilità finanziaria) all’Esm (il meccanismo europeo di stabilità, noto come fondo salva Stati). Un trasferimento che permetterebbe di far uscire dal debito pubblico italiano una quarantina di miliardi. «Parliamo di operazioni puramente contabili e l’Italia non deve convincere l’Europa ma i mercati, che certo non si farebbero ingannare da soluzioni non in grado di risolvere i problemi reali», è il monito di Boeri. Il quale, in realtà, è convinto che il debito non sia in cima ai pensieri del governo e neppure delle autorità europee: «Credo che a Bruxelles diano per scontato che l’Italia non riuscirà a raggiungere gli obiettivi sulla riduzione del debito». C’è da sperare che il governo non lo prenda come un via libera alla galoppata dell’indebitamento pubblico. Altrimenti, quando mai dovesse arrivare, la ristrutturazione del debito sarà ancora più dolorosa di quanto sarebbe adesso.