maurizio maggi

Nella giungla dei sussidi

Nella giungla dei sussidi

Maurizio Maggi e Gloria Riva – L’Espresso

Così fan tutti. Niente di illegale, per carità. Tutto in punta di norma, come nella storia di Gennaro, assunto con la qualifica di operaio nel 1989 in uno stabilimento di Airola, Benevento, che era della Pirelli e ora è della Tta Adler, dove si fanno componenti in fibra di carbonio per l’auto. Una fabbrica passata attraverso mille traversie. «Tra una cassa integrazione e un sussidio, dal 1992 a oggi ho lavorato 7-8 anni», racconta a “l’Espresso” l’operaio campano, che per riservatezza preferisce non divulgare il suo cognome. Adesso prende circa mille euro al mese di mobilità (anche grazie agli assegni familiari, avendo due figli). Quando la crisi morde – e quella di oggi ha i denti di un insaziabile coccodrillo – la dipendenza dagli ammortizzatori sociali, spesso usati in modo distorto, si rivela sempre più naturale. Diventando giorno dopo giorno un peso insopportabile per le casse dello Stato.

La loro riforma è uno degli snodi vitali del Jobs Act voluto dal premier Matteo Renzi e, in parte, sarà oggetto di uno dei decreti in agenda per il Consiglio dei ministri di martedì 22 dicembre. «La precedenza sarà data al contratto a tutele crescenti e all’estensione ai collaboratori dell’indennità di disoccupazione. Mentre delle modifiche alla cassa integrazione straordinaria se ne parlerà a gennaio», spiega Stefano Sacchi, il professore della Statale di Milano che, per conto del ministero del Lavoro, sta elaborando le riforme degli ammortizzatori sociali. La cassa integrazione ordinaria, che interviene nei momenti di difficoltà temporanea delle aziende e che più o meno ha funzionato, non si tocca. Il resto, dalla cassa integrazione straordinaria alla mobilità, alla fine dell’intervento governativo dovrebbe uscirne stravolto. E dovrebbe sparire la cassa in deroga, che in tanti considerano un mostro.

Tra il 2009 e il 2013, secondo la Cgia di Mestre, per gli ammortizzatori sociali si sono spesi quasi 59 miliardi. ll 72 per cento provenienti dai contributi versati da lavoratori e imprese, il resto dallo Stato attraverso la fiscalità. All’accelerata dei costi ha contribuito la cassa in deroga (che costa 1,5 miliardi l’anno), introdotta sei anni fa dal governo Berlusconi per aiutare i dipendenti delle piccole imprese escluse dai benefici della cassa “normale” e che, del resto, non pagano i contributi a carico delle grandi manifatture. «L’uso della cassa integrazione come anticamera della pensione è divenuto palese due anni fa, ai tempi della riforma Fornero: ci siamo resi conto dell’esercito di persone che, facendo due conti, attraverso cassa ordinaria, straordinaria e mobilità, si avvicina alla pensione senza lavorare, o facendolo per pochi giorni al mese, per periodi che vanno dai tre agli undici anni, nei casi più gravi», racconta Antonietta Mundo, capo del servizio statistico dell’Inps fino a un anno fa.

All’Inps, sull’argomento, le bocche di solito sono cucite. Ma Antonietta Mundo, oggi in pensione, può parlare senza peli sulla lingua. Ne ha viste passare tante, troppe, di pratiche “eccezionali” di tutela. Come quella dei quasi 20 mila “prosecutori volontari”, per lo più donne, usciti dal mondo del lavoro nel passato dopo appena 15 anni d’impiego, che versando altri cinque anni di contributi si sono ritrovati giovanissimi a incassare la pensione. Nel mirino dell’ex dirigente Inps c’è pure la “mobilità lunga”, quella che supera il massimo fissato dalle norme in 36 mesi, e che invece «può durare fino a 7 anni per le aziende delle zone depresse. Gli ultimi a beneficiarne andranno in pensione nel 2018, e tra di loro ci sono parecchi dipendenti della vecchia Alitalia». Che di fatto ha chiuso i battenti nel 2008 e che proprio in una zona depressa non è. Però ha goduto di particolare riguardi, diventando un simbolo dell’italianissima stortura. Per non dover fissare misure ad hoc per gli addetti dell’ex compagnia di bandiera, venne varato un fondo speciale. Con il risultato di rendere praticabile per 13mila lavoratori del settore (compresi quelli di Air France, British Airways, Aeroflot e tante altre) un’integrazione per 7 anni, pari all’80 per cento della paga ricevuta nell’ultimo anno. E senza il tetto stabilito dalla legge in circa 1.100 euro. Se, poniamo, l’ultimo stipendio di un dipendente di una compagnia aerea è stato di 5mila euro, nei 7 anni di mobilità lunga può arrivare a 4mila euro al mese. L’esperta statistica dell’Inps sottolinea un altro aspetto patologico nell’approccio alla cassa integrazione straordinaria, quella che dovrebbe scendere in campo quando i problemi sono strutturali: «Si va diffondendo il “metodo Fiat”. Intanto, la si richiede. Poi, se del caso, la si usa spesso proprio come tappa d’avvicinamento alla pensione». Il ricorso alla cassa, alla Fiat, è stato abbondante. Anche in casi in cui l’ipotesi di una reale ripartenza produttiva era una chimera. Come a Termini Imerese, dove l’ultima vettura è uscita dalla linea di montaggio nel 2011. I dipendenti sono in cassa integrazione sino a fine anno, in attesa di un salvatore che (forse) darà loro un lavoro o un’altra razione di cassa. Se il salvatore evapora – è successo anche con l’italo-brasiliana Gri-fa, mentre ora il governo tratta con la torinese Metec – si passerà alla mobilità.

In Italia ci sono quasi 4 milioni e meno di disoccupati e lavoratori beneficiari di un sostegno al reddito, suddivisibili in tre macrocategorie. Nella prima ci sono quelli che l’impiego l’hanno perso e ricevono sussidi ma non sono più legati alI`azienda in cui prestavano la propria opera: erano 351 mila nel 2008, a fine 2103 la crisi economica li ha quasi triplicati (923 mila). La seconda categoria è quella degli “ammortizzati”, coloro che mantengono un rapporto diretto con l’impresa e godono della cassa integrazione: nel 2008 erano 85 mila, ora viaggiano intorno a quota 300 mila. Infine, c’è la famiglia numericamente più grossa – 3,4 milioni, secondo l’ultimo rapporto Istat – che è anche quella che alza meno la voce, perché è meno rappresentata e soprattutto meno garantita, composta da chi ha esaurito tutte le munizioni dopo essere passato da cassa ordinaria, straordinaria e mobilità, e pure dai lavoratori autonomi e parasubordinati a spasso.

«L’Italia ha il record di durata dell’utilizzo degli ammortizzatori sociali ma intanto ha tagliato del 30 per cento la spesa per le politiche di attivazione al lavoro, mentre altri, tipo Francia o Germania, nello stesso periodo li hanno aumentati sensibilmente», sostiene Romano Benini, consulente del ministero del Lavoro e docente di politiche dell’occupazione. «In tutta Europa, il primo destinatario di politiche attive al lavoro è il disoccupato. Invece noi abbiamo sempre avuto scarsa considerazione per i servizi per l’impiego. Nel 2012 – ultimi dati disponibili – abbiamo speso circa 24 miliardi per tutti i tipi di sussidi (casse integrazioni, indennità di mobilità e disoccupazione, prepensionamenti), contro gli 11,3 miliardi del 2008. Per aiutare disoccupati e inoccupati a formarsi e ricollocarsi abbiamo invece investito 5,6 miliardi, meno dei 6,1 miliardi del 2008». La recessione non aiuta le politiche attive, però meglio si può fare. Benini cita l’esempio di W2W, un programma coordinato Stato-Regioni, gestito dall’agenzia governativa Italia Lavoro. Nel 2010 aveva “preso in carico” 78 mila disoccupati: due anni dopo, il 54 per cento risultava effettivamente impiegato. Numerini, che tuttavia fanno capire l’utilità di un’Agenzia nazionale del lavoro (un obiettivo del Jobs Act) perché se le Regioni seguitano ad andare ciascuna per conto proprio, nessuna politica attiva può funzionare.

I Centri pubblici per l’impiego sono spesso inefficienti. D’altronde, ogni addetto dovrebbe “curare” in media 116 disoccupati (ma 211 in Veneto e 220 in Lombardia), mentre in Inghilterra il rapporto è a 30. Un sistema che, sostengono le agenzie private di collocamento, non può funzionare, anche a causa dell’atteggiamento dei disoccupati stessi. «Da Venezia a Torino abbiamo contattato decine di operai in cassa integrazione e alle dipendenze di aziende prossime alla chiusura. Uno su tre ha scelto di non accettare l’offerta di lavoro, ritenendo più sicuro e confortevole stare in cassa anziché rimettersi all’opera. Ci dicono: “Mi richiami fra qualche mese”, spiega Giorgio Veronelli, direttore della Gch Consulting. Pure il colosso Adecco fatica assai a convincere i cassintegrati a lavorare: «Capita tutti i giorni. Cerchiamo di spiegare a chi non ha un impiego che restare a casa in cassa per anni è un boomerang, più passa il tempo e meno sono appetibili», dice il numero uno italiano Federico Vione, che propone un sistema simile a quello svizzero, dove il sostegno al reddito viene tolto a chi rifiuta più di due proposte di lavoro. Effettivamente, una soluzione del genere dovrebbe far parte del jobs Act anche se certezze non ce ne sono.

La cassa integrazione, insomma, è un insostituibile aiuto, specie in fasi drammatiche come quelle attuali, ma rischia di trasformarsi in una prigione. Ed è anche una sorta di droga – dice un dirigente di Confindustria che vuol restare anonimo – sia per l’azienda che per il lavoratore: «Forse è davvero arrivato il momento di essere coerenti. In tante assemblee delle associazioni imprenditoriali, per esempio, ho sentito tuonare contro la cassa in deroga. Cancelliamola, dicono gli imprenditori. Poi però, quando si conclude la trafila di cassa e mobilità, di fronte all’alternativa se licenziare i dipendenti o farvi ricorso, la cassa in deroga finiscono per chiederla».

Ora diamoci un taglio

Ora diamoci un taglio

Maurizio Maggi – L’Espresso

Duemilacentosessantotto miliardi di curo. È il debito pubblico-monstre accumulato dall’Italia. Una zavorra, in costante aumento, pronta a raggiungere a fine anno, a bocce ferme, l’impressionante livello del 135 per cento rispetto al prodotto interno lordo, cioè al totale della ricchezza prodotta dall’intero Paese. Economisti e commentatori invitano l’Italia ad affrontare sul serio il tema della riduzione dell’indebitamento, ma l’argomento non pare in cima ai pensieri del governo guidato da Matteo Renzi. Da anni piovono sul tappeto le ricette taglia debito e, anche se l’impressione è che l’esecutivo non abbia intenzione di intervenire nel breve, prima o poi anche chi sta a Palazzo Chigi e chi comanda al ministero dell’Economia il nodo dovrà provare a scioglierlo. I suggerimenti, anche fantasiosi, fioccano, però si sa che l’Italia è riottosa quando è il momento di mettersi a tagliare. “Il Sole 24 Ore”, il quotidiano della Confindustria, a metà agosto, è salito in cattedra e di proposte ne ha addirittura avanzate tre.

Le strade maestre per alleggerire il debito sono tre: tagliare la spesa, per avere meno bisogno di emettere nuovi titoli pubblici; vendere società e immobili controllati dallo Stato; consolidare-ristrutturare il debito pubblico esistente. Quest’ultima strada la si imbocca riducendo le cedole, oppure allungando la scadenza dei Btp e degli altri titoli del Tesoro e degli enti locali in circolazione, ma è politicamente la più sensibile. La necessità di intervenire alla svelta sul debito è il cavallo di battaglia di Lucrezia Reichlin. Docente alla London School of Economics, già direttore della ricerca alla Banca Centrale Europea, Reichlin dice che la limatura andrebbe fatta in seguito a un’intesa a livello europeo, certo, ma anche che l’idea che uno Stato possa non pagare una parte delle proprie obbligazioni non dev’essere ritenuta un tabù. Lo ha dichiarato tre mesi fa a “l’Espresso” e lo ha ribadito qualche giorno fa a “la Repubblica”. Giacché, sostiene, «acquistare un titolo di Stato comporta dei rischi, è una leggenda metropolitana che il capitale sia garantito». D’altronde Daniel Gros, che dirige il Centre for European Policy Studies di Bruxelles, a “Class Cncb” ha sottolineato come il rapporto debito-Pil pericolosamente vicino al 140 per cento sia una mannaia che per ora resta sospesa ma è pronta ad abbattersi non appena il mercato dovesse volgere al brutto. Da questo orecchio, però, il governo non ci sente. Il viceministro dell’Economia e delle Finanze, per esempio, di ristrutturazione proprio non vuol sentir parlare: per Enrico Morando, infatti, le conseguenze sarebbero peggiori del problema che si intende risolvere. Meglio puntare, eventualmente, sulla cessione di una fetta del patrimonio immobiliare pubblico.

Gira e rigira, si va sempre a finire lì, sulle taumaturgiche doti del mattone di Stato da vendere. «L’idea di costruire un fondo è in pista da molti anni, ma non sboccia mai e l’esperienza delle cartolarizzazioni targate Giulio Tremonti è stata un fiasco», commenta Emilio Barucci, economista del Politecnico di Milano e figlio di Piero, ex ministro del Tesoro. Sul fronte delle privatizzazioni di società pubbliche, poi, secondo Barucci non è rimasto granché da fare. «Anche cedendo quote di Eni ed Enel, o privatizzando le Poste e le Ferrovie, operazioni peraltro assai complicate, al massimo si può sperare di incassare 10 o 20 miliardi». Inoltre, aggiunge Tito Boeri, prorettore alla Ricerca della Bocconi, già consulente di Banca mondiale e Fondo monetario internazionale, «con il calo del costo al servizio del debito, anche cessioni che erano vantaggiose fino a un anno fa ora non lo sono più, visto che i rendimenti offerti dai titoli di Stato risultano sensibilmente inferiori ai rendimenti delle partecipazioni in Eni ed Enel». Per Boeri, bisognerebbe riuscire a vendere non solo i pezzi pregiati – come ha fatto il Milan con Mario Balotelli, esemplifica l’economista da grande tifoso rossonero deluso – ma cercare di alienare tutte le società dove si annida l’inefficienza, che abbonda nelle partecipate e nelle municipalizzate. «Temi», dice Boeri, «su cui ha lavorato molto il commissario Carlo Cottarelli e che dovrebbero rappresentare buona parte della politica di spending review». Per il banchiere Gianluca Garbi, amministratore delegato di Banca Sistema, il mirino va puntato proprio sulle municipalizzate e bisogna far di tutto, intanto, perché il debito smetta di crescere: «Nel decreto Salva Italia c’era una norma perfetta, che andrebbe immediatamente resa operativa. In sintesi: se perdono, le municipalizzate vanno cedute e per gli stessi servizi il Comune si rivolgerà ad altri. Così pagando ciò che gli serve, senza avere una struttura inefficiente sulle spalle. Non dimentichiamoci che l’Argentina è fallita a causa dei debiti locali, non di quelli statali». Sulla vendita degli immobili, invece, Garbi è perplesso: «I prezzi del mattone sono già bassi e le compravendite languono: se lo Stato aumenta l’offerta di immobili in assenza di domanda, la situazione non può che peggiorare».

Barucci, Boeri e Garbi, come tanti altri esperti di finanza e conti pubblici, si schierano senza se e senza ma contro qualsiasi gioco delle tre tavolette, come il passaggio delle passività dall’Esfs (il fondo europeo di stabilità finanziaria) all’Esm (il meccanismo europeo di stabilità, noto come fondo salva Stati). Un trasferimento che permetterebbe di far uscire dal debito pubblico italiano una quarantina di miliardi. «Parliamo di operazioni puramente contabili e l’Italia non deve convincere l’Europa ma i mercati, che certo non si farebbero ingannare da soluzioni non in grado di risolvere i problemi reali», è il monito di Boeri. Il quale, in realtà, è convinto che il debito non sia in cima ai pensieri del governo e neppure delle autorità europee: «Credo che a Bruxelles diano per scontato che l’Italia non riuscirà a raggiungere gli obiettivi sulla riduzione del debito». C’è da sperare che il governo non lo prenda come un via libera alla galoppata dell’indebitamento pubblico. Altrimenti, quando mai dovesse arrivare, la ristrutturazione del debito sarà ancora più dolorosa di quanto sarebbe adesso.