Il dilemma irrisolto di Renzi: tenersi il consenso o trasformare il paese?
Stefano Folli – Il Sole 24 Ore
In un colloquio pubblicato dal “Foglio” il sindaco di Firenze, Dario Nardella, coglie un punto centrale del “renzismo” oggi: la necessità di scegliere fra consenso popolare ed efficacia del progetto riformatore. Nardella ricorda il ben noto caso Schroeder, il cancelliere socialdemocratico tedesco che negli anni Novanta trasformò la Germania e venne poi sconfitto alle elezioni. Come dire che un leader deve mettere in conto il rischio dell’impopolarità se davvero vuole lasciare il segno nella storia.
Qui è quasi d’obbligo la citazione di una celebre frase di De Gasperi: «Il politico pensa alle prossime elezioni, lo statista alle prossime generazioni». E a cosa pensa Matteo Renzi: ai voti da prendere o al paese da salvare? L’impressione è che il presidente del Consiglio abbia privilegiato a lungo gli elettori, ma che adesso sia tentato di imboccare la strada che potrebbe fare di lui uno statista. Tuttavia è incerto. Davanti a lui si divarica il bivio cruciale senza che sia emersa nella sua mente una decisione chiara su quale dei due sentieri imboccare. Lo scenario dei mille giorni evoca un lungo cammino che implica una plausibile perdita di popolarità. Il ricorso ai consueti fuochi artificiali mediatici indica la volontà di non perdere contatto con l’elettorato del 41%.
In altri termini la tentazione di tenere insieme i due corni del dilemma (il consenso e le riforme) è ancora molto forte per il premier. Forse la speranza segreta è di riuscirci attraverso qualche gioco di prestigio verbale, in attesa che un po’ di fortuna e qualche circostanza favorevole spinga la carovana italiana fuori dalla stagnazione economica. Al tempo stesso Renzi si rende conto che la sua missione potrebbe essere quella di spezzare le ingessature che imprigionano il paese anche a costo di compromettere un destino personale (e per lui non ci sarebbe nemmeno un contratto d’oro con Gazprom, come fu per il suo omologo tedesco).
L’esperimento politico più innovativo degli ultimi anni vive ormai di questa ambiguità che presto dovrà essere sciolta. Del resto, l’immagine del presidente del Consiglio che tira dritto per la sua strada è compatibile con emtrambe le ipotesi. Il nemico dell'”establishment”, l’uomo che non va nemmeno al convegno di Cernobbio perché preferisce stare a Roma a lavorare, l’avversario degli interessi organizzati è in grado di incarnare le due parti principali della commedia. Può diventare il leader che si affida direttamente al popolo saltando tutte le mediazioni e preparandosi – appena possibile – a raccogliere il plebiscito elettorale. Ovvero può trasformarsi nel premier che sacrifica se stesso guidando il paese verso le più radicali e dolorose riforme. Difficile sapere oggi quale sarà l’esito finale di un tormento che è visibile nei provvedimenti che il governo sta varando.
Si promettono tagli di spesa per 15 miliardi nel 2015, ma si confermano i 10 miliardi per garantire gli 80 euro a una vasta platea elettorale. Si lancia la riforma della scuola in nome del merito, ma il dato concreto riguarda l’assunzione di 150mila precari, mentre al tempo stesso si bloccano gli stipendi degli statali. Insomma, la direzione di marcia non è ancora chiara. Renzi non vuole essere la versione italiana della Thatcher (lo ha già detto più volte), ma potrebbe decidere di rappresentare la replica mediterranea di Schroeder. Vincitore per la storia ma sconfitto sul piano del consenso.