Mille e non più di mille, i giorni per dare un giudizio
Tiziano Resca – Avvenire
Ma secondo voi mille giorni sono tanti o pochi per riaggiustare un Paese, o almeno avviarne il cambiamento? Tenendo conto che quel Paese è il nostro, da decenni sprofondato in una gestione della cosa pubblica da moviola, in una politica e in rapporti sociali che fanno di risse e colpi bassi e denigrazione del “nemico” il principale – a volte l’unico – motivo di esistere.
A parole, il premier Renzi pare molto sicuro del futuro di tutti noi: ha detto e twittato – ormai sembra più convincente twittare che dire – che entro domenica 28 maggio 2017 (mille giorni, appunto) «l’Italia la cambiamo». Facendo ancora una volta balenare un po’ di tutto. Pur senza approfondire molto. «Alla fine saremo giudicati», ha aggiunto. A dire il vero il momento dei giudizi è già cominciato, visto che tempo non ce n’è tanto, soprattutto per chi – sempre di più – si trova oppresso dalla mancanza di lavoro o dall’impossibilità di offrirlo, quel lavoro. Non che si potesse chiedere a questo governo di raddrizzare un malandato Paese nel giro di sei-sette mesi. Quell’impossibile pretesa lasciamola a qualche partito o movimento che cerca spazio cavalcando non idee ma malessere sociale e qualunquismo. A creare un po’ troppe attese era stato però lo stesso premier, fissando all’inizio del suo mandato un tour de force di riforme a scadenza mensile degno di un imbattibile record mondiale. Adesso, approdato a più ragionevoli e miti ambizioni, ha dilatato i tempi, rendendoli maggiormente credibili.
Mille giorni, dunque. Tanti o pochi? Cerchiamo un termine di paragone, torniamo indietro nel tempo, mille giorni fa… fine novembre inizio dicembre del 2011. Uno dei periodi più arroventati della recente politica italiana. Tre settimane prima – era la sera del 12 novembre – Silvio Berlusconi, travolto da tutto, aveva chiuso la sua carriera da premier rassegnando le dimissioni. Nell’arco degli ultimi 17 anni, a partire dal 1994, aveva governato a periodi alterni per 3.340 giorni. Il famigerato spread in quei momenti era a livelli pazzeschi (550 e oltre), il tasso di disoccupazione giovanile già drammatico ma più basso di oggi, al 30,1%, quello complessivo pure, all’8,6. Ma l’immancabile Europa ci considerava dei rovina-famiglia e il Paese pareva sgretolarsi sotto le botte della crisi, anche se l’allora premier tentava di convincere il mondo che «l’Italia è benestante, i ristoranti sono pieni, per gli aerei si riesce a fatica a prenotare un posto». Quell’ottimismo non bastò per restare a Palazzo Chigi. Arrivò Mario Monti. Supertecnico – allora era doverosamente visto come tale, poi in realtà fondò un partito – legatissimo all’idea di Europa, riscuoteva grande stima e suscitava enormi speranze. Ma non resse a lungo, un anno 5 mesi e 12 giorni. E poi, dopo il suicidio elettorale di Pierluigi Bersani, toccò a Enrico Letta. Neanche dieci mesi, travolto dal dilagare dell’incalzante Renzi. Il quale, oggi, fissa la data del giudizio: mille giorni. I precedenti mille non hanno portato molto bene. Ora sta a lui dimostrare che, se usati coi fatti e non con soli annunci e promesse, i prossimi mille possono anche funzionare. E non essere troppi.