Stress test
Enrico Cisnetto – Il Foglio
La Banca dei Regolamenti internazionali ha calcolato che attualmente nel mondo ci sono derivati per 710 trilioni di dollari, oltre 9 volte l’ammontare del pil planetario, di cui circa 300 allocati nelle prime cinque banche americane (quelle “too big to fail”). Se si pensa che nel 2007, subito prima che a partire dallo scoppio della bolla dei mutui subprime Usa si innescasse la grande crisi finanziaria mondiale, l’ammontare di questo tipo di strumenti era di 530 trilioni di dollari, e che solo due anni fa era meno di 470 trilioni di dollari, questo dà la misura del grado di pericolo che tutti noi corriamo di ritrovarci nel pieno di una bufera finanziaria epocale, con in più l’aggravante di non aver ancora smaltito, specie in Europa – e in Italia in particolare – le conseguenze, soprattutto recessive e deflattive, della crisi precedente. Naturalmente, questi numeri indicano il valore nominale dei derivati in circolazione, mentre il rischio sottostante è inferiore. Ma è altrettanto vero che essendoci oggi il 25 per cento in più di questi strumenti rispetto al 2007, il pericolo non può che essere aumentato.
Dico questo non per menar gramo, ma per misurare la distanza siderale che c’è tra il rigore dei controlli sulle banche europee che in queste ore, con gli stress test del duo Bce-Eba, stanno facendo tremare i polsi di molti banchieri – e che dovrebbero fare lo stesso effetto agli uomini di governo, se solo avessero contezza della minaccia sistemica che pende sui loro paesi – e l’allegra spensieratezza che, specie oltreoceano, spinge i grandi istituti all’azzardo senza che nessuno intervenga. E già, perché queste verifiche sulla congruità patrimoniale delle banche – che tra l’altro ha generato una speculazione borsistica (e non solo) sugli esiti dei test che definire scandalosa è poco – sono state costruite all’insegna della più assoluta intransigenza, mentre nessun organismo, né nazionale né sovranazionale, ha aperto bocca di fronte al fenomeno della moltiplicazione dei derivati. Non solo.
Come sette anni fa, anche questa volta è sui mercati anglo-americani che si sono prevalentemente sviluppate attività che possano generare titoli tossici, ma anche questa volta, se la storia dovesse ripetersi, sarebbe l’Europa – dove, a parte un caso, non ci sono istituti ingolfati di derivati – a pagare il prezzo più alto. Allora, francamente non si capisce perché accanirsi sulle banche continentali – siamo alla terza tornata di stress test dal 2010 – tra l’altro appena reduci da ristrutturazioni pesanti e massicci aumenti di capitale (complessivamente sono stati chiesti al mercato 70 miliardi, di cui 10 solo in Italia). E se fosse vera la cifra di cui si parla in questa tormentata vigilia (domenica saranno ufficialmente annunciati i risultati dell’asset quality review), e cioè 50 miliardi di ulteriore fabbisogno patrimoniale, si capirebbe che trattasi di puro masochismo.
Si dice: ma così si assicura la stabilità finanziaria europea, indispensabile sia per poter realizzare l’Unione bancaria sia per dare corpo alla ripresa economica. Può darsi, è sperabile. Ma intanto si è ottenuto il risultato di tenere sotto pressione per un anno 130 banche, commerciali e d’investimento, proprio nel momento in cui avrebbero dovuto dedicarsi totalmente al rilancio degli impieghi, e di aver offerto una clamorosa occasione di guadagno alla peggiore speculazione, che ha approfittato per lanciare rumors di ogni genere facendo in molti casi letteralmente crollare il corso dei titoli di diverse banche. Ma questo, paradossalmente, è niente se pensiamo a quale valore di affidabilità si possa assegnare a graduatorie che pretendono di essere uniformi ma sono stilate sulla base di regole nazionali del tutto diverse tra loro. Non sfuggirà, infatti, che chi fosse eventualmente bocciato – e dunque costretto a prevedere nuove ricapitalizzazioni – si troverebbe facilmente preda di banche straniere. E aggregazioni cross-border figlie di asimmetrie normative sarebbero il modo peggiore per costruire un sistema bancario europeo integrato. Cosa abbiamo speso a fare?
È per queste considerazioni che ritengo che la questione doveva e dovrebbe essere affrontata dai governi europei. E in particolare da quelli di paesi, come l’Italia, che potrebbero ricavare maggior danno da questa “giostra”. Per carità, le authority è giusto che abbiano la loro autonomia, ma quando le scelte che esse fanno hanno ricadute sistemiche, allora è necessario che i governi si prendano le loro responsabilità. Il credito è troppo importante per lasciarne i destini in mano – con tutto il rispetto – al signor Andrea Enria (presidente dell’Eba, italiano) e alla gentile signora Daniele Nouy (responsabile della Vigilanza della Bce, francese), Anche perché, uno si domanda, a suo tempo cosa abbiamo speso a fare un mucchio di quattrini per evitare che le nostre banche facessero la stessa fine della Lehman, se poi i governi le lasciano dipendere da improbabili pagelle redatte da maestri (?) totalmente privi di responsabilità pubblica?