Con il Jobs Act arriva l’apartheid
Michele Tiraboschi – Panorama
La storia si ripete sempre due volte: la prima come tragedia, la seconda come farsa. Richiamare la celebre massima di Karl Marx per commentare il discusso superamento dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, vero e proprio totem della sinistra ortodossa italiana, non vuole avere nulla di provocatorio e tanto meno di ironico. Semmai è un tentativo di fare chiarezza sulla reale portata del tanto atteso Jobs act di Matteo Renzi: un provvedimento giunto al nastro di partenza non senza, tuttavia, qualche incidente di percorso che ne ha ampiamente compromesso l’efficacia.
Di riforma dell’art. 18 si parla da anni. E non è certo il caso di richiamare vere e proprie tragedie (come l’omicidio di Marco Biagi) per segnalare quanto sia tormentata la strada del processo di modernizzazione di un mercato del lavoro, quello italiano, tra i peggiori d’Europa per numero di occupati e per reali opportunità di accesso specie per i giovani e le donne. In un Paese dalla memoria corta come il nostro, dove autorevoli dirigenti politici e sindacali che attaccavano la legge Biagi hanno oggi votato in Parlamento il testo del Jobs act, è sufficiente fare pochi passi indietro nel passato. Perché la tragedia inizia nel 2012, con le altisonanti promesse della legge Fornero, enfaticamente titolata: «Riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita».
Crescita che nessuno ha visto e che anzi si è subito tramutata, per colpa dei gravi errori del ministro del Lavoro di Mario Monti, in un drastico peggioramento di tutti i principali indicatori del mercato del lavoro. Un impianto, quello della legge Fornero, che poco o nulla si discosta dal Jobs act di Renzi: con un’immancabile enfasi su quelle politiche attive che nel nostro Paese non ci sono, come bene dimostra il flop di Garanzia giovani, e con nuove rigidità per le imprese, specie quelle di piccole dimensioni, in termini di (maggiori) costi e (minori) flessibilità contrattuali dovute al tentativo, del tutto antistorico, di ribadire la centralità dei contratti di lavoro dipendente a tempo indeterminato. Nel non comprendere la vera natura del lavoro del futuro, la tragedia si trasforma ora in farsa col Jobs act. Perché la promessa di superare l’art, 18, come tributo alla modernità, è solo nelle intenzioni.
L’ambiguo compromesso parlamentare che ha consentito l’approvazione del testo di legge non supera affatto l’art. 18 e il conseguente spazio di intervento della magistratura che mantiene ampi margini per ordinare al datore di lavoro la reintegra nel posto di lavoro. Nessuna reale semplificazione delle regole del diritto del lavoro pare del resto possibile in un contesto normativo che vedrà convivere, almeno per i prossimi 15-20 anni, due diversi regimi di tutele tra loro profondamente differenziate a seconda della data di assunzione, prima o dopo il 2015. Oltre a inevitabili dubbi di legittimità costituzionale, la scelta di mantenere il vecchio art. 18 per chi già oggi è assunto a tempo indeterminato finirà anzi per ridurre la propensione a cambiare lavoro anche per il rischio oggettivo, nel passaggio a rapporti meno stabili, di pregiudicare la piena maturazione dei requisiti pensionistici.
Insomma, poco o nulla cambia rispetto al passato. Se non che si introduce ora una nuova e più odiosa forma di apartheid nel nostro mercato del lavoro: quella trai nuovi e i vecchi assunti. Con questi ultimi che, esclusi dal campo di applicazione del nuovo art. 18, manterranno a vita le tutele ereditate dal Novecento industriale contribuendo cosi alla creazione di nuove e insospettate barriere per i giovani nell’accesso al mercato del lavoro.