L’addio al segreto, ultima possibilità
Roberto Lugano e Salvatore Pedullà – Il Sole 24 Ore
La firma dell’accordo per lo scambio di informazioni tra Italia e Svizzera, attesa nelle prossime settimane, ha un duplice significato e lancia un importante messaggio. Nell’immediato, consente di sapere quali saranno le regole e i costi per la regolarizzazione delle attività e degli investimenti detenuti dai cittadini italiani nella confederazione elvetica. In una prospettiva più generale, le nuove regole di cooperazione in arrivo segnano probabilmente la fine di un’epoca: un’epoca caratterizzata da un lato dall’esportazione di ricchezza oltre confine e dall’altro dall’assoluta riservatezza che il sistema del segreto bancario elvetico ha fin qui largamente garantito.
Si tratta di due aspetti importanti rafforzati dal messaggio di fondo che questa nuova prospettiva di collaborazione finisce per trasmettere. Qui, probabilmente, non cade solo il segreto svizzero ma viene messa in dubbio l’idea stessa che nel mondo attuale possano ancora esistere territori sicuri dove occultare ricchezze sottratte a tassazione in Italia (o in qualsiasi altro paese). D’altra parte, l’offensiva lanciata dall’Ocse e dai maggiori Paesi per la trasparenza fiscale qualche risultato lo sta producendo. Gli accordi sottoscritti a livello internazionale spesso prevedono addirittura lo scambio automatico di informazioni. Certo, servirà ancora un po’ di tempo per mandare tutto a regime ma non si può ignorare che tra i firmatari di queste intese figurano Paesi quali il Lussemburgo, San Marino, il Lichtenstein, le isole Cayman, Hong Kong, Singapore, Monaco, la stessa Svizzera. Sono gli stessi Paesi che in questi anni hanno offerto un rifugio sicuro dai controlli del Fisco, e che oggi si dichiarano pronti a trasmettere tutte le informazioni su conti correnti e movimentazioni finanziarie.
È una prospettiva alla quale molti non credevano. Basti pensare agli scudi fiscali del 2002 e del 2009-10. Nonostante la grande convenienza alla regolarizzazione e al buon successo di quelle operazioni, molti contribuenti scelsero comunque di non aderire perché convinti che mai e poi mai i Paesi “opachi” – la Svizzera ma non solo – avrebbero rinunciato al segreto e reso di fatto trasparente il rapporto con i clienti italiani. Molti hanno scelto di continuare a rischiare e a detenere oltre confine le ricchezze senza segnalarne provenienza, proventi e consistenza nella dichiarazione dei redditi.
La legge sul rientro dei capitali sta in qualche modo accelerando un processo di per sé irreversibile. La necessità di chiudere ulteriori accordi bilaterali per lo scambio di informazioni entro 60 giorni dall’entrata in vigore del provvedimento (e quindi entro il 2 marzo) ha dato solo l’impulso per accelerare la sottoscrizione dei patti. E a ben giudicare, anche la circostanza che l’accordo con la Svizzera (senza dubbio il più importante) sia prossimo alla firma ha una valenza ulteriore, quasi a significare che si è fatto in fretta perché questa è l’unica strada percorribile in un sistema globale moderno.
La voluntary disclosure rappresenta la nuova e, presumibilmente, ultima opportunità per regolarizzare la propria posizione. Il mondo sta diventando una scatola trasparente, i pochi Stati che ancora non si sono adeguati saranno costretti a farlo, è solo questione di tempo. Scegliere oggi di mantenere le attività illegalmente in questi luoghi presenta incognite enormi: dal rischio–paese all’impossibilità pratica di recuperare le somme estere. Si può obiettare che in alcuni casi il costo della disclosure può essere elevato, ma d’altro canto non approfittarne espone a un duplice effetto negativo: perdere la disponibilità concreta dei propri mezzi finanziari ed esporsi ai sempre maggiori rischi di essere accertati e sanzionati (anche penalmente) in modo ancor più aspro.