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Un voto da esaminare? Quello svizzero

Un voto da esaminare? Quello svizzero

Vittorio Pezzuto – Metro

Il voto più importante di questi giorni resta a mio giudizio quello svizzero. Gli elettori dei 26 Cantoni hanno infatti bocciato con uno straripante 77% il referendum che proponeva di elargire un reddito minimo garantito a tutti i cittadini elvetici. Questi valligiani son gente concreta, che bada giustamente ai propri interessi. Sanno bene come un reddito non possa prescindere dal lavoro e infatti si industriano ogni giorno per guadagnare sempre di più, orgogliosi del loro successo personale. Tant’è vero che agli autori di questa strampalata proposta hanno così replicato: «Ma siete matti?! I soldi mica nascono sotto le pietre. Come disse Margaret Thatcher, non esiste il denaro pubblico: esiste solo il denaro dei contribuenti. E noi non abbiamo nessuna intenzione di pagare nuove tasse per far fronte al costo di una mancia assistenziale mensile (fino alla tomba) di 2.250 euro per ciascun adulto e addirittura di 560 euro per ciascun minorenne.

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Il “bazooka” di Draghi e la saggezza della piccola Svizzera

Il “bazooka” di Draghi e la saggezza della piccola Svizzera

Carlo Lottieri

Negli scorsi giorni due avvenimenti, peraltro strettamente collegati, hanno dominato la cronaca economica europea.
Il primo riguarda la Svizzera, dato che la Banca centrale elvetica ha deciso di non difendere più il cambio 1,20 tra euro e franco, con la conseguenza che la seconda valuta si è notevolmente apprezzata fino a raggiungere la parità con la moneta comune europea. La mossa è avvenuta un po’ a sorpresa, ma è pur vero che dal 2012 a oggi erano stati in molti a sostenere che un cambio tanto inadeguato prima o poi si sarebbe dovuto abbandonare. In un mondo caratterizzato da una forte domanda di franchi svizzeri, la difesa di quel livello avrebbe finito per rappresentare un costo troppo elevato per Berna.
Cosa però ha indotto gli svizzeri a cambiare strada? È chiaro che essi avrebbero difeso ancora per un po’ quel cambio del tutto artificioso, cedendo alle pressioni lobbistiche di operatori turistici ed esportatori, se non vi fosse stato l’annuncio di una massiccia azione espansiva da parte della Bce. Dinanzi al cosiddetto “bazooka” di Mario Draghi, che si apprestava a immettere – nel corso del tempo – più di mille miliardi di euro, la Bns ha preso atto della realtà e ha lasciato che il mercato dei cambi facesse il suo corso.
Sull’azione di Draghi si è registrato un (quasi) unanime consenso. Si è detto che – finalmente! – le autorità monetarie prendevano iniziative anti-recessione, che questo denaro fresco avrebbe potuto aiutare gli investimenti e le imprese, che in tal modo gli interessi sul debito pubblico potevano diminuire, con grande beneficio per i conti degli Stati gravati da debiti. E poi si è detto che c’era bisogno di contrastare la deflazione con una “buona” inflazione intorno al 2%. Credo che sia opportuno, invece, essere scettici.
Una buona moneta è una moneta stabile, che facilita gli scambi, permette un’efficace contabilità e viene accumulata in vista di investimenti futuri. Queste sono le funzioni essenziali della moneta, ma nessuna di queste è davvero preservata quando chi la gestisce pretende di manipolarla a piacere. Se nel corso della storia passata il processo evolutivo gestito dagli operatori di mercato ha selezionato l’oro, questo è avvenuto proprio perché si trattava di una moneta non facilmente moltiplicabile con una decisione arbitraria come quella assunta qualche giorno fa da Draghi.
Oltre a ciò, Draghi ha agito – come qualche commentatore tedesco ha evidenziato – a vantaggio dei Paesi meno virtuosi e più indebitati (Italia e Francia, in particolare) e a danno di quelli più virtuosi. Questo “premiare” chi fa debiti non soltanto è ingiusto, ma rappresenta un incentivo ad agire in maniera sconsiderata. Per giunta ora si entra in una fase inflazionistica che, dopo la fiammata iniziale, ci obbligherà a fare i conti con tutte le difficoltà che sono caratteristiche di un’economia con una moneta debole.
L’Europa si può in qualche modo permettere di fare questo, illudendosi che non vi sia un prezzo assai salato da pagare, perché è una grande realtà, che unisce centinaia di milioni di persone. Questo processo sarà distruttivo, ma i nodi verranno al pettine negli anni a venire. Al contrario, la dirigenza della banca centrale elvetica – che pure a lungo non si è mostrata più saggia delle dirigenze delle altre banche centrali (americana, europea, giapponese ecc.) – è stata costretta a invertire la propria direzione dalle limitate dimensioni dell’economia del Paese, che in definitiva conta solo otto milioni di abitanti.
Ancora una volta, la Svizzera ha tratto vantaggio dalla propria “piccolezza”. Se alla fine il buon senso ha prevalso e se ora – di conseguenza – gli svizzeri possono contare su un cambio più affidabile (che può orientare gli attori economici a reimpostare su basi maggiormente solide la loro struttura produttiva) è solo grazie al fatto che non hanno potuto diluire la responsabilità dei propri errori e non hanno potuto proseguire in quella politica monetaria dispendiosa e redistributrice che prima li portava ad acquisire euro.
È questa una buona lezione che, in qualche modo, dovrebbe anche indurci a riflettere maggiormente su cosa sta diventando l’Unione europea e sulle conseguenze negative derivanti dall’espansione del suo potere.
Il fisco italiano nelle banche svizzere

Il fisco italiano nelle banche svizzere

Marco Mobili – Il Sole 24 Ore

Scambio di informazioni su tutte le imposte di qualsiasi natura e denominazione. In nessun caso sarà possibile negare informazioni in possesso di banche, intermediari finanziari o fiduciari. La richiesta di dati e notizie da parte del Fisco potrà riguardare soltanto atti e informazioni bancarie successive alla firma dell’accordo e si potrà concentrare su singoli contribuenti così come su specifici gruppi di soggetti. Ma in quest’ultimo caso solo sulla base si specifici comportamenti “fiscali” e non che li accomunano, ma mai sulla base dei loro dati identificativi. Non solo. Per i lavoratori transfrontalieri stop ai ristorni dalla Svizzera ai comuni italiani, a rimborsare le casse dei sindaci di confine sarà direttamente Roma. Come? Con un cambio di tassazione ancora tutto da scrivere ma che nella sostanza prevederà un prelievo elvetico del 60/70% e uno tutto made in Italy sulla parte restante del reddito del lavoratore.

L’accordo
Sono queste le principali novità dell’accordo fiscale raggiunto ieri tra Italia e Svizzera dopo tre anni di trattative. Un accordo fiscale che certamente per l’Italia rappresenta anche una spinta e una facilitazione all’adesione alla voluntary disclosure da parte di contribuenti italiani che hanno capitali nei 26 Cantoni elvetici. La firma vera e propria dell’accordo tra i ministri delle Finanze arriverà a metà febbraio, comunque sia prima del 2 marzo come prevede la disciplina sul rientro dei capitali e dunque con la possibilità di evitare il raddoppio delle sanzioni e il raddoppio dei termini dell’accertamento (si veda il servizio qui in basso). A presentare ieri alla stampa i contenuti e la struttura dell’accordo è stato Vieri Ceriani, consigliere per le politiche fiscali del ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, che dopo tre anni di negoziato “benedice” l’accordo definendolo «epocale» e in grado di «fornire strumenti di contrasto dell’evasione fiscale impensabili fino a qualche anno fa».

Quattro capitoli
Sono in tutto quattro i capitoli dell’accordo Italia-Svizzera. Oltre allo scambio di informazioni con la modifica della Convenzione contro le doppie imposizioni l’accordo prevede una vera e propria road map che dovrà portare nei prossimi mesi e con steap successivi: alla definizione di una nuova tassazione per i lavoratori transfrontalieri; all’uscita della Svizzera dalle black list; alla definizione di una serie di questioni che riguardano Campione d’Italia, l’enclave italiana in territorio svizzero, dall’indeducibilità dell’Iva elvetica alla circolazione dei beni. Ma andiamo con ordine.

Doppia imposizione
L’accordo raggiunto con Berna modifica da subito il trattato bilaterale esistente contro la doppia imposizione sulla base dell’attuale strandard Ocse. Trattandosi di una modifica legale – ha spiegato Ceriani – dovrà essere sottoposto alla ratifica dei rispettivi Parlamenti. E compatibilmente con le procedure elvetiche questo dovrà accadere tra non meno di 18 mesi.

Passepartout per il Fisco
I due passepartout per gli ispettori del Fisco italiani sono lo scambio di informazioni finanziarie su tutte le imposte, di qualsiasi natura e senza possibilità di vedersi opporre il segreto bancario. E soprattutto il fatto che la richiesta può finalmente partire direttamente dall’agenzia delle Entrate. Armi più efficaci nel contrasto all’evasione – ha sottolineato Ceriani – rispetto non solo alle attuali procedure che vedono il Paese elvetico rispondere soltanto quando si muovono le procure, ma anche rispetto allo stesso scambio automatico di informazioni al quale la Svizzera ha già dichiarato di volersi adeguare sulla base del negoziato in corso con la Ue e comunque a partire dal 2017.

Controlli non retroattivi
Dal momento della firma dell’accordo tra il ministro Padoan e il suo omologo svizzero, Eveline Widmer-Schlumpf, gli ispettori del Fisco avranno, dunque, piena visibilità sui conti in Svizzera dei contribuenti italiani. In ogni caso, però, nel protocollo è espressamente previsto che non ci sarà retroattività per gli accertamenti del Fisco su eventi e circostanze antecedenti la firma dell’accordo e dunque prima della metà del prossimo mese di febbraio. Comunque sia le Entrate avranno la possibilità di chiedere le informazioni sui contribuenti italiani alla Svizzera comunque molti mesi prima rispetto alla ratifica degli accordi che, come detto, non arriverà prima del 2017.

L’uscita dalla black list
Lo scambio di informazioni secondo lo standard Ocse rappresenta, comunque, il primo passo che dovrà portare la Svizzera a uscire dalle cosiddette black list, a partire da quella sulle controllate estere (Cfc) o quella sulla deducibilità dei costi in Paesi “canaglia”. Due temi, questi, che comunque saranno rivisti a tutto campo nella delega fiscale e nel decreto annunciato per febbraio nel capitolo sulla fiscalità internazionale. Allo stesso tempo dopo lo scambio di informazioni i due Paesi potranno condividere nuove indicazioni sulla concorrenza fiscale.

I frontalieri
L’altro tema caldo dell’accordo e che terrà banco nei prossimi mesi è la nuova tassazione dei lavoratori transfrontalieri. L’obiettivo è quello di intervenire a invarianza di carico fiscale e progressivamente adeguarlo su principi di equità: «Non è pensabile che un lavoratore che risiedee e lavora a 20 chilometri dalla Svizzera paghi più imposte di un lavoratore che risiede a venti chilometri, ma che lavora in un Cantone svizzero», ha sottolineato Ceriani. L’idea su cui sarà formalizzato l’accordo resta quella di uno splitting fiscale rivisto e corretto. Dove non sarà più la Svizzera a restituire una quota del prelievo effettuato sui redditi dei lavoratori transfrontalieri ai Comuni di confine. A farlo sarà Roma. In sostanza il datore di lavoro svizzero continuerà a prelevare il 60% a titolo di tasse dai redditi del dipendente residente in Italia, mentre la parte restante sarà tassata direttamente da Roma. Il meccanismo potrebbe prevedere di riconoscere al lavoratore una deduzione dal reddito imponibile pari alla quota prelevata dall’Erario elvetico e dunque tassare solo il restante 40%. Il tutto a due specifiche condizioni: la prima – ha spiegato Ceriani – è che i Comuni dovranno ricevere le stesse somme che incassavano prima dell’accordo dalla tassazione elvetica dei circa 64mila transfrontalieri (si parla di circa 70 milioni); la seconda è che tutto partirà soltanto dopo che la telematica consentirà di semplificare la vita ai contribuenti. Questi saranno obbligati sì a due dichiarazioni dei redditi, una svizzera e una italiana, ma almeno quella targata Roma sarà interamente precompilata.

Cambio insostenibile con l’Europa ferma

Cambio insostenibile con l’Europa ferma

Marco Onado – Il Sole 24 Ore

Non sempre i tappi che saltano fanno allegria. L’improvvisa decisione della Banca centrale svizzera di abolire il tetto al cambio con l’euro ha provocato un terremoto sui mercati e suscita pesanti interrogativi sulla capacità della politica monetaria di influire sui livelli dei cambi nelle condizioni odierne dei mercati finanziari.

Vi erano molte ragioni di buon senso alla base della decisione, nell’agosto 2011, di evitare un eccessivo apprezzamento del franco svizzero, da sempre considerato bene-rifugio per eccellenza. Eliminando la probabilità di un guadagno in conto capitale sul cambio a breve e mantenendo bassi i tassi di interesse interni (addirittura introducendo tassi negativi nel dicembre scorso), si sperava di porre un freno a movimenti di capitale considerati – non senza ragione – destabilizzanti. L’eterogenesi dei fini ha portato la Bns ad acquistare grandi quantità di titoli in euro, riducendo le pressioni sul mercato dei titoli pubblici dei Paesi periferici e togliendo quindi le castagne dal fuoco alla Bce il cui quantitative easing era ancora in attesa del via libera.

Ma sia la mancata ripresa europea e soprattutto la crisi russa rendevano sempre più difficile difendere un tasso di cambio insostenibile rispetto ai movimenti potenziali di capitali. Le crisi degli anni Novanta hanno insegnato che nessuna banca centrale può contrastare flussi che assumono sempre dimensioni multiple rispetto alle riserve che essa può mettere in campo. È stato così per i Paesi del Sud-Est asiatico, quando il flusso di capitali si è improvvisamente invertito; è stato così per Messico e Argentina che avevano ancorato la loro moneta al dollaro. E non può che essere così nelle condizioni odierne, visto che la dimensione complessiva dei movimenti a breve è cresciuta enormemente e il mercato dei cambi, secondo gli ultimi dati della Banca dei regolamenti internazionali, attiva ogni giorno scambi per 5mila miliardi di dollari, pari a circa un terzo del Pil mondiale, ovviamente annuale (erano 3,3 nel 2007, cioè prima della crisi). E poiché fra il 5 e il 6 per cento di questa frenetica attività di trading riguarda il franco svizzero, l’impegno della Bns a non sforare il tetto del cambio euro-franco non era più credibile.

La Banca centrale svizzera ha colto i mercati di sorpresa, ma proprio la decisione clamorosa mette a nudo le criticità della strategia di stabilizzazione adottata nel 2011. In primo luogo, perché ha inferto un duro colpo alla credibilità della stessa banca centrale, visto che solo un mese fa essa aveva baldanzosamente dichiarato che il tetto sarebbe stato difeso «con la massima determinazione». Poi, perché ha confermato ex post la strategia di investire sul franco svizzero come bene-rifugio: chi ha investito negli ultimi tre anni mette a segno da ieri guadagni in conto capitale di tutto rispetto. Infine perché sacrifica pesantemente gli interessi dell’economia svizzera ai problemi del cambio. Non a caso, la Borsa ha segnato pesanti perdite, soprattutto per le imprese più orientate all’export: i mercati europei rappresentano infatti metà del commercio estero svizzero. Niente male come bilancio.

La lezione più generale che deriva dai fatti di ieri è che l’economia mondiale e in particolare la finanza non hanno ancora trovato il modo per affrontare gli aspetti macroeconomici della globalizzazione e dei movimenti internazionali di capitali. Alla base dei problemi della Svizzera (prima con l’introduzione del tetto, poi con la sua improvvisa abolizione) sta il potenziale destabilizzante dei movimenti di capitale a breve in un mondo interconnesso, ma con politiche monetarie non coordinate fra loro per effetto degli inevitabili sfasamenti dei cicli.

I global financial imbalances, cioè la polarizzazione del mondo fra Paesi in permanente surplus di parte corrente (Cina e Germania in testa) e quindi esportatori di capitali e Paesi che si trovano nella condizione opposta (Stati Uniti e alcuni Paesi della periferia dell’eurozona) sono stati una delle cause fondamentali della crisi e da allora si sono ridimensionati, ma non in modo decisivo e continuano ad essere il primo alimento di flussi di capitale a breve troppo grandi rispetto alla capacità di contrasto di autorità nazionali. E ovviamente lo sfasamento ciclico amplia i differenziali dei tassi d’interesse e l’intensità dei flussi di capitale.

Il Fondo monetario internazionale ha documentato in un recente rapporto triennale il problema della fragilità del sistema finanziario internazionale e della trasmissione dei problemi da un Paese all’altro. È sempre il problema che si ponevano i padri fondatori del nuovo ordine monetario di Bretton Woods, che diede origine appunto all’Fmi, oltre che alla Banca mondiale. Come ha affermato Paul Krugman, commentando quel rapporto, si ripropone oggi il problema di assegnare al Fondo un ruolo almeno di sorveglianza e di monitoraggio sugli squilibri macroeconomici di ciascun Paese, che danno origine alla trasmissione di spinte destabilizzanti verso l’esterno. Una funzione di vigilanza preventiva, per così dire, basata solo sulla moral suasion nei confronti dei singoli Paesi. Ma fra l’enunciazione di questo principio, che pure non contrasta con lo statuto del Fondo (alla fine, dice Krugman, il Fondo è nato per fare il pompiere delle crisi e prevenire è meglio che curare) e la sua applicazione c’è un oceano intero di difficoltà politiche. E così le cause profonde della crisi non vengono affrontate e le banche centrali sono costrette ad andare avanti in ordine sparso, correndo tutti i rischi del caso come si è visto ieri a Zurigo.

L’addio al segreto, ultima possibilità

L’addio al segreto, ultima possibilità

Roberto Lugano e Salvatore Pedullà – Il Sole 24 Ore

La firma dell’accordo per lo scambio di informazioni tra Italia e Svizzera, attesa nelle prossime settimane, ha un duplice significato e lancia un importante messaggio. Nell’immediato, consente di sapere quali saranno le regole e i costi per la regolarizzazione delle attività e degli investimenti detenuti dai cittadini italiani nella confederazione elvetica. In una prospettiva più generale, le nuove regole di cooperazione in arrivo segnano probabilmente la fine di un’epoca: un’epoca caratterizzata da un lato dall’esportazione di ricchezza oltre confine e dall’altro dall’assoluta riservatezza che il sistema del segreto bancario elvetico ha fin qui largamente garantito.

Si tratta di due aspetti importanti rafforzati dal messaggio di fondo che questa nuova prospettiva di collaborazione finisce per trasmettere. Qui, probabilmente, non cade solo il segreto svizzero ma viene messa in dubbio l’idea stessa che nel mondo attuale possano ancora esistere territori sicuri dove occultare ricchezze sottratte a tassazione in Italia (o in qualsiasi altro paese). D’altra parte, l’offensiva lanciata dall’Ocse e dai maggiori Paesi per la trasparenza fiscale qualche risultato lo sta producendo. Gli accordi sottoscritti a livello internazionale spesso prevedono addirittura lo scambio automatico di informazioni. Certo, servirà ancora un po’ di tempo per mandare tutto a regime ma non si può ignorare che tra i firmatari di queste intese figurano Paesi quali il Lussemburgo, San Marino, il Lichtenstein, le isole Cayman, Hong Kong, Singapore, Monaco, la stessa Svizzera. Sono gli stessi Paesi che in questi anni hanno offerto un rifugio sicuro dai controlli del Fisco, e che oggi si dichiarano pronti a trasmettere tutte le informazioni su conti correnti e movimentazioni finanziarie.

È una prospettiva alla quale molti non credevano. Basti pensare agli scudi fiscali del 2002 e del 2009-10. Nonostante la grande convenienza alla regolarizzazione e al buon successo di quelle operazioni, molti contribuenti scelsero comunque di non aderire perché convinti che mai e poi mai i Paesi “opachi” – la Svizzera ma non solo – avrebbero rinunciato al segreto e reso di fatto trasparente il rapporto con i clienti italiani. Molti hanno scelto di continuare a rischiare e a detenere oltre confine le ricchezze senza segnalarne provenienza, proventi e consistenza nella dichiarazione dei redditi.

La legge sul rientro dei capitali sta in qualche modo accelerando un processo di per sé irreversibile. La necessità di chiudere ulteriori accordi bilaterali per lo scambio di informazioni entro 60 giorni dall’entrata in vigore del provvedimento (e quindi entro il 2 marzo) ha dato solo l’impulso per accelerare la sottoscrizione dei patti. E a ben giudicare, anche la circostanza che l’accordo con la Svizzera (senza dubbio il più importante) sia prossimo alla firma ha una valenza ulteriore, quasi a significare che si è fatto in fretta perché questa è l’unica strada percorribile in un sistema globale moderno.

La voluntary disclosure rappresenta la nuova e, presumibilmente, ultima opportunità per regolarizzare la propria posizione. Il mondo sta diventando una scatola trasparente, i pochi Stati che ancora non si sono adeguati saranno costretti a farlo, è solo questione di tempo. Scegliere oggi di mantenere le attività illegalmente in questi luoghi presenta incognite enormi: dal rischio–paese all’impossibilità pratica di recuperare le somme estere. Si può obiettare che in alcuni casi il costo della disclosure può essere elevato, ma d’altro canto non approfittarne espone a un duplice effetto negativo: perdere la disponibilità concreta dei propri mezzi finanziari ed esporsi ai sempre maggiori rischi di essere accertati e sanzionati (anche penalmente) in modo ancor più aspro.