Jobs Act, il bluff delle tutele universali estese ai precari
Giuliano Cazzola – Il Garantista
Nel dibattito che da mesi accompagna il Jobs Act Poletti 2.0, il tema dei nuovi ammortizzatori sociali ha svolto il ruolo di Cenerentola nella celebre favola, se messo a confronto con il clamore suscitato dalla disciplina del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti con annesse nuove norme sul recesso. Poi il governo ha deciso di affiancare i due schemi di decreto legislativo, facendoli approdare – una volta ottenuto il “bollino” della Ragioneria generale dello Stato – entrambi nelle Commissioni abilitate a fornire il parere obbligatorio anche se non vincolante sui testi.
La delega, con riferimento con riferimento agli strumenti di sostegno in caso di disoccupazione involontaria, elencava, inoltre, i seguenti principi e criteri direttivi: 1. rimodulazione e omogeneizzazione dell’Assicurazione sociale per l’impiego (Aspi), rapportando la durata dei trattamenti alla pregressa storia contributiva del lavoratore; 2. incremento della durata massima per i lavoratori con carriere contributive più rilevanti; 3. universalizzazione del campo di applicazione dell’Aspi, con estensione ai lavoratori con contratto di collaborazione coordinata e continuativa, fino al suo superamento e prevedendo, prima dell’entrata a regime, un periodo almeno biennale di sperimentazione a risorse definite; 4. eventuale introduzione, dopo la fruizione dell’Aspi, di una prestazione limitata ai lavoratori, in disoccupazione involontaria, in condizioni di disagio, con obbligo di partecipazione alle iniziative di attivazione proposte dai servizi competenti.
Si trattava, nelle intenzioni del governo, di un’operazione ambiziosa, promessa come “estensione universale” delle tutele. In realtà, la scarsità delle risorse finanziarie ne ha imposto un notevole ridimensionamento. Cosi, il provvedimento (all’articolo 5) commisura la durata della Naspi (ovvero la Nuova Aspi) alla pregressa storia contributiva del lavoratore per un periodo massimo di quattro anni; non prevede, inoltre, alcun incremento per i lavoratori con carriere contributive “più rilevanti”. Quanto all’annunciata “universalità” delle prestazioni non vi è traccia dell’estensione della Naspi ai lavoratori con contratto di collaborazione coordinata e continuativa (come richiesto dalla legge delega); viene introdotta, invece, un’indennità diversa (per requisiti, durata e copertura finanziaria) denominata Dis-Coll. Lo schema di decreto, poi, prevede un periodo di sperimentazione più breve (di otto mesi per la Naspi e di un anno per la Dis-Coll) rispetto a quello richiesto dalla legge-delega. A decorrere dal primo maggio prossimo e in via sperimentale per l’anno 2015, viene istituito (articolo 16) l’assegno di disoccupazione (Asdi) destinato ai soggetti che abbiano fruito della Naspi per l’intera sua durata entro il 31 dicembre 2015, i quali, privi di occupazione, si trovino in una condizione economica di bisogno.
Nello schema predisposto è stato incluso, all’ultimo momento, all’articolo 17, anche il contratto di ricollocazione (stralciato dal testo riguardante il contratto a tutele crescenti). Dovrebbe rappresentare “il nuovo che avanza” nel campo delle politiche attive del lavoro, ma la sua piena operatività è a rischio: si rinvia la disciplina di alcuni importanti aspetti a un successivo decreto legislativo. La disposizione stabilisce che abbiano diritto al contratto di ricollocazione soltanto i soggetti licenziati illegittimamente per giustificato motivo oggettivo o per licenziamento collettivo: resterebbero quindi fuori dal campo di applicazione del contratto di ricollocazione i soggetti licenziati illegittimamente per giustificato motivo soggettivo e quelli licenziati legittimamente per giustificato motivo oggettivo. A conti fatti, anche chi, come il sottoscritto, è favorevole al contratto di nuovo conio e alle annesse tutele in tema di recesso, non può esimersi dal sottolineare l’esistenza di uno squilibrio tra le tutele che vengono meno nel caso di licenziamento e le nuove che si aggiungono sugli aspetti della protezione del reddito e del principale strumento delle politiche attive (il contratto di ricollocazione, appunto).
A determinare tale squilibrio saranno state certamente le limitate disponibilità finanziarie. Ma il “fatto materiale” (ovvero lo squilibrio) sussiste. Sarà anche per questo motivo, allora, che il ministro Giuliano Poletti si è messo, di impegno, a sostenere che il sistema pensionistico ha bisogno di flessibilità, in mancanza della quale gravi saranno le conseguenze sociali della riforma Fornero (un provvedimento che, a mio avviso, sta bene com’è). Si torna a parlare dell’idea dell’acconto – come prestito restituibile a rate – sulla pensione spettante, in caso di perdita del lavoro in prossimità della maturazione dei requisiti. Pare che l’Inps ne abbia quantificato gli oneri in circa 400 milioni l’anno che potrebbero essere ricavanti da un pesante giro di vite (grazie al ricalcolo col metodo contributivo per il quale “spinge” molto il presidente designato, Tito Boeri) non solo le “pensioni d’oro”, ma anche quelle di “bronzo”. In sostanza, con la ripresa annunciata, le aziende dovranno fare i conti con gli esuberi fino a ora “coperti” con gli ammortizzatori sociali ancien regime. Una pensione, in Italia, non la si nega mai a nessuno. Ed è sicuramente meglio che lavorare.