Un «conto» da 15 miliardi al mese che affonderebbe le finanze europee
Giuseppe Pennisi – Avvenire
Le guerre si possono vincere o perdere. Anche se va fatto ogni sforzo perché non si combattano. Quale che sia l’esito, è comunque certo che comportano pesanti costi sia in termini di vittime sia economici. Quanto costerebbe un’eventuale guerra nel Mediterraneo? Gli avvenimenti sono stati così rapidi e convulsi che nessuno, sinora, ha predisposto stime – come accadde, invece, per le due guerre del Golfo, che ebbero una lunga premessa di lavorio democratico. Inoltre, mentre alcuni centri studi americani – come la Rand Corp in California e la Rac a Washington – sono specializzati in questa tipologia di analisi, in Europa solo alcune università britanniche dedicano risorse a ricerche del genere, ponendo attenzione particolare, però, agli studi sull’economia del terrorismo piuttosto che sull’economia della guerra – tema che da 70 anni appare desueto e privo di interesse.
Occorre chiedersi quali sarebbero le implicazioni di politica economica per i Paesi maggiormente coinvolti nel conflitto in generale, e per quelli dell’Ue mediterranea in particolare. Alcuni parametri ci sono e possono essere utilizzati. Ai tempi della seconda guerra del Golfo, le prime stime di fonte americana (elaborate dell’ormai defunta banca d’affari Lehman Brothers) parlavano di un costo finanziario” in senso stretto di 5,4 miliardi al mese. Tali stime riguardavano esclusivamente l’onere “finanziario” del dispiego delle forze Nato, e non comprendevano né le spese, sempre “finanziarie”, per il sostentamento dei profughi, né quelle per riparare e rimettere in funzione strutture danneggiate. Non comprendevano né i costi umani (in termini di perdite di vite, di mutilazioni, di dislocazioni) né i costi “economici” (in termini di effetti sulla produzione, sul reddito e sull’occupazione dei Paesi coinvolti).
Non solo, dopo pochi mesi si rivelarono errate del 300%, su base mensile, ma il conflitto che sarebbe dovuto durare poche settimane è ancora in corso. Allora, gli Usa esponevano un tasso di aumento del Pil tra il 2,75% ed il 3,5% l’anno, e un saggio di disoccupazione pari a solo il 4,2% della forza di lavoro. E gran parte del costo finanziario era sul loro bilancio. Prendendo come base minima (molto prudenziale) 15 miliardi di euro al mese, e ipotizzando che gran parte dell’onere graverebbe sull’eurozona (che tra l’altro dovrebbe noleggiare parte degli armamenti), è legittimo chiedersi quali sarebbero le implicazioni in termini sia di finanza pubblica sia d’economia reale. Specialmente in una fase in cui l’area dell’euro sta faticando ad uscire da una lunga e pesante recessione che ha sfiancato il sistema manifatturiero di numerosi Paesi e portato al 12% il tasso medio di disoccupazione.
La guerra sarebbe indubbiamente “una circostanza eccezionale e straordinaria” per rivedere in modo marcato il Fiscal Compact (o la sua interpretazione) in quanto tutti gli Stati dell’area dovrebbero aumentare spesa pubblica sia di parte corrente che in conto capitale. Potrebbe anche diventare il grimaldello per consentire l’applicazione di quella golden rule in base alla quale l’investimento viene esentato dal computo di alcuni parametri. Al tempo stesso, comporrebbe un forte storno di risorse dal civile al militare. Non solamente salterebbe il già traballante Piano Juncker ma si porrebbero seri problemi di valutazione della spesa per assicurare che vengano adottati principi di efficienza, efficacia ed economicità. Tentativi in questo senso vennero effettuati circa 23 anni fa (nel 1991-92) ma i risultatati non sono mai stati pubblicati e non si sa se il gruppo di studio esista ancora. Sarebbe l’occasione giusta per riattivarlo.